Roberto Bottino è responsabile dell’Unità Operativa di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale della Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia.

Negli ultimi vent’anni nelle terapie intensive neonatali, oltre all’introduzione di strumentazioni sempre più sofisticate, è cambiata anche la mentalità, per così dire. Può raccontare?
Sono entrato in una terapia intensiva neonatale ormai venticinque anni fa e devo dire che sono cambiate tantissime cose. In effetti, oltre ai mezzi a disposizione, che sono decisamente diversi rispetto a quelli che c’erano allora, sono cambiati la mentalità e l’approccio al caso clinico. Potrei dire che una volta agivamo in un certo senso più liberamente, con meno attenzioni per certi aspetti clinici e terapeutici che adesso curiamo molto di più, grazie anche alle maggiori conoscenze, e siamo più attenti sia alla relazione con i genitori sia in rapporto alla medicina legale.
Io ho iniziato la mia "carriera” a Pavia, dove sono stato fino al 2000, per poi trasferirmi a Brescia prima nella Terapia Intensiva Neonatale degli Spedali Civili e poi, dal dicembre 2011, in Fondazione Poliambulanza. Ecco, all’epoca i genitori entravano a malapena in una terapia intensiva, parliamo di dieci minuti al giorno e neanche tutti i giorni. Ma nel ’91, quando ero andato a fare uno stage in cardiologia pediatrica in altra sede, i genitori, tranne rare eccezioni, non potevano proprio entrare: potevano solo vedere i neonati attraverso un vetro per mezz’ora al giorno. Il fatto che un genitore potesse vedere il figlio per 10-15 minuti due-tre volte alla settimana era già un passo avanti.
Oggi, nel mio reparto i genitori hanno ingresso libero dalle 15 alle 22 e ci consideriamo indietro. Quando sarà pronto il nuovo reparto offriremo un libero accesso ventiquattro ore su ventiquattro; in altri paesi, ma anche in alcune realtà italiane, è già una pratica consolidata.
Ovviamente tutto questo comporta un nuovo approccio organizzativo e lavorativo, ma anche una mentalità nuova, sia da parte degli operatori sanitari sia da parte del pubblico. Purtroppo in Italia fatichiamo a seguire le regole imposte dal contesto: quando entriamo in un posto, cerchiamo di appropriarcene o comunque di adattare le regole alle nostre esigenze.
La scelta di coinvolgere i genitori ha ragioni culturali, ma anche mediche.
C’è sicuramente un approccio culturale diverso. È diventato di prioritaria importanza creare un rapporto con i genitori, sia per coinvolgerli nella cura del proprio bambino, ma anche per far capire loro quello che stiamo facendo.
Molte incomprensioni, molte rivalse nascono proprio dal fatto che i genitori si sentono tenuti in disparte, esclusi, non capiscono. Negli Stati Uniti e nei paesi nordici, le terapie intensive sono organizzate con stanze singole dove il genitore può stare accanto al figlio come se fosse un reparto normale. Per noi questo oggi è strutturalmente impossibile. Ci vorrebbe un personale diverso numericamente e anche con una preparazione particolare. E poi c’è sempre la questione della mentalità: le persone ormai vanno a vedere in internet: "Ma perché non fate questo?”, "C’è anche quest’altra terapia...”. Spesso sembra che noi non siamo all’altezza della situazione mentre il personale è adeguato, preparato, cerchiamo di mantenerci costantemente aggiornati.
Il fatto è che, per necessità di reparto o per un’emergenza, può capitare di dire: "Per favore, uscite un attimo”, perché abbiamo bisogno di muoverci rapidamente e liberamente, ma la gente non riesce a capire perché deve accomodarsi fuori dal reparto; quello è il loro momento e devono stare lì. Non so, probabilmente dovremo abituarci a fare certe manovre anche invasive con i genitori a fianco. Francamente io su questo sono della vecchia scuola: non è facile rianimare un bambino con a fianco un genitore. Anche perché il genitore, ripeto, non capisce quello che sta succedendo. E non lo accetta.
L’altro giorno una collega commentava: "Fondamentalmente la gente non accetta che esista la malattia, che esista la morte e noi possiamo fare ma fino a un certo punto”. È questo: la tecnologia ci ha dotato di mezzi e conoscenze che anche solo dieci anni fa ci sognavamo, però poi alla fine...
Se parliamo di neonati di 23-25 settimane di età gestazionale, siamo proprio ai limiti della sopravvivenza. I genitori vanno informati dei rischi e delle possibilità di sopravvivenza, ma se parliamo di un 50%, non si p ...[continua]

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