Questo tuo ultimo libro è il diario di un anno vissuto in una quinta elementare. Puoi raccontarci com’è nata l’idea?
Era un po’ di tempo che volevo scrivere un libro che mi desse la possibilità di raccontare e condividere alcune scoperte e alcuni elementi di metodo che ho sperimentato con le bambine e i bambini di Giove (Tr) in questi anni. Sono 36 anni che insegno e sentivo il desiderio di ragionare intorno ad alcuni punti fermi dai quali parte la ricerca, che è sempre nuova con ogni classe, ma non ne venivo a capo. Poi è accaduto che l’anno vissuto con la mia ultima quinta elementare sia stato così intenso e ricco di elaborazioni e scoperte che, quando mi sono messo a rileggere i materiali realizzati, mi è sembrato che potessero costituire il filo di un racconto più ampio. Quando si conclude un ciclo elementare noi maestri viviamo un piccolo lutto. Abbiamo seguito un gruppo di bambini dai sei agli undici anni osservandone ogni crescita e trasformazione e poi d’un tratto, con la fine della quinta, loro se ne vanno e resta un senso di vuoto, perché quella che si sviluppa in una classe è una relazione molto intensa. Ecco, forse è per colmare questo vuoto che nel corso dell’estate ho provato a raccontare ciò che avevamo vissuto e, divagando anche un po’, ho desiderato parlare anche del senso che ha per me educare ascoltando i bambini.
C’è da dire anche che, durante l’anno, raccolgo sempre tutte le conversazioni che facciamo in classe, poi, di volta in volta, le trascrivo e le restituisco ai bambini. Quell’anno le conversazioni raccolte mi parevano particolarmente ricche, belle, dunque il libro di cui stiamo parlando non è solo mio, ma in un certo modo è un libro collettivo, in cui hanno un grande peso le loro parole. Questo, paradossalmente, è anche il motivo per cui ho avuto tanta difficoltà a trovare un editore. Editori importanti lo leggevano e dicevano che era bello, interessante, però c’erano troppi dialoghi con i bambini, così lo rifiutavano...
Invece, per me, volendo dimostrare che i bambini "pensano grande”, era assolutamente necessario fare ascoltare le loro voci, le loro parole, perché la mia affermazione non risultasse sentimentale o peggio retorica. E infatti parecchi che lo hanno letto hanno detto che si erano stupiti ascoltando cosa sono in grado di discutere i bambini.
I dialoghi sembrano svolgersi quasi in una forma seminariale: c’è un tema, un punto di partenza e poi parte la conversazione.
La conversazione per me dovrebbe essere il fondamento di ogni atto educativo. Si tratta di creare un contesto in cui l’ascoltarsi è percepito da tutti come un arricchimento reciproco, perché io realmente ero sempre assai curioso di sapere cosa pensavano Matteo, Valeria, Mariana… E poi, praticando la conversazione si impara ad aspettare e in qualche modo a coltivare il desiderio. Dopo un po’, infatti, ci si comincia a conoscere, tutti riconosciamo le nostre varie idiosincrasie e, tuttavia, quando affrontiamo una questione nuova abbiamo il desiderio di sapere cosa pensano gli altri e questo per me è il più bel risultato che si possa ottenere. È un processo lungo, difficile, ma quando ci si arriva, abbiamo la sensazione che insieme si sta creando qualcosa, che si sta facendo cultura. Non c’è solo la trasmissione di qualcosa di già definito, codificato.
Questo purtroppo noi insegnanti spesso lo dimentichiamo: ci sono argomenti che riteniamo importanti, necessari, e allora vogliamo insegnarli, trasmetterli. Ma quei contenuti o si innestano in qualcosa di vivo o l’albero non fruttifica. Ci vuole un aggancio interno e la cultura deve potere fare da specchio, sempre, alla conoscenza di sé. Se la conoscenza non viene percepita anche in questa funzione, necessariamente i ragazzi si allontaneranno sempre più dalle conoscenze proposte dalla scuola. Qui sta a mio avviso la radice di un grande dramma italiano: ci sono milioni di ragazzi (soprattutto maschi) che si sono irrimediabilmente allontanati dal desiderio di conoscere. Nella scuola si compie questo delitto di cui siamo tutti responsabili, ...[continua]
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