In questi ultimi mesi si è parlato molto del Belgio, in particolare del quartiere di Molenbeek.
Ci tengo a sottolineare che il problema non è belga, ma di tutta l’Europa. In Belgio le prime ondate di immigrazione risalgono agli anni Cinquanta, quando furono firmati degli accordi con il Marocco e la Turchia per risolvere il problema della mancanza di manodopera nelle miniere e nelle fabbriche.
All’epoca arrivarono molti uomini soli con l’intenzione di ritornare a casa propria. Come sappiamo, questo non è avvenuto: al contrario, grazie ai ricongiungimenti familiari, sono arrivate le mogli e i figli. La gestione di questo flusso migratorio da parte delle autorità belghe non è stata adeguata. Questi immigrati hanno finito con il vivere in comunità chiuse e isolate.
Oggi si dice che dobbiamo impegnarci per l’integrazione degli immigrati. Purtroppo sarebbe stato meglio agire prima: la seconda e la terza generazione in fondo hanno ricevuto in eredità i problemi di un’immigrazione mal governata; questi problemi sono andati aggravandosi all’indomani della crisi economica.
Si è parlato molto di Molenbeek, ma in realtà il nostro modello di integrazione, a differenza di quello francese, non è fatto di ghetti. Certo, molti giovani partiti per la Siria venivano da lì, ma c’è anche chi viveva invece nelle Fiandre o in altre località, meno in Vallonia. In fondo i nostri numeri sono meno problematici di quelli francesi. Alcuni figli di immigrati turchi e magrebini sono diventati professori universitari, ricercatori, capi d’azienda, hanno fatto carriera politica, sono diventati pure ministri. Molti hanno fatto carriera anche grazie al voto comunitario, perché all’inizio vengono eletti principalmente dalla loro comunità.
La giunta socialista di Molenbeek è stata accusata di aver sottostimato il problema del radicalismo.
Probabilmente degli errori sono stati fatti. Però il precedente sindaco Moreaux ha fatto un lavoro importante nel campo dell’istruzione pensando proprio ai figli di immigrati. A Molenbeek ci sono molte organizzazioni e iniziative di sostegno all’integrazione. Molti giovani sono stati capaci di superare le difficoltà e di affermarsi, altri purtroppo si sono rivolti all’estremismo religioso.
Il Belgio, in proporzione ai suoi abitanti, è uno dei paesi dove si registra il più alto numero di partenze di giovani per la Siria. È un segnale che deve farci riflettere. Cosa rappresenta per loro questo movimento terroristico? Cosa immaginano? Sono domande che dobbiamo porci. Purtroppo manca un lavoro sui giovani: bisogna agire a monte, capire le dinamiche, così da prevenire sia la radicalizzazione che le manifestazioni di odio dettate dai pregiudizi e dalle generalizzazioni.
Durante la guerra a Gaza, accanto alle manifestazioni di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese, abbiamo assistito a vere espressioni di odio nei confronti degli ebrei: si tende a sovrapporre ebreo e israeliano o a sionista e a fare di tutta l’erba un fascio.
Si perdono di vista le differenze, ed è proprio così che nascono gli stereotipi. Per questo è così importante lavorare proprio sulle distinzioni. I giovani di origine musulmana devono saper distinguere le cose. È un lavoro fondamentale e deve essere accompagnato da una presa di coscienza collettiva. La radicalizzazione riguarda tutti noi, perché alcuni giovani si radicalizzano e partono per la Siria, ma altri si radicalizzano e restano qui da noi. Le cause di questa situazione sono diverse: ci sono ragioni sociali, economiche, la disoccupazione, la difficoltà d’immaginare un futuro e poi c’è il conflitto israelo-palestinese che può innescare un corto circuito.
E poi c’è la situazione internazionale. Le primavere arabe avevano suscitato tante speranze...
È stato illusorio sperare che la primavera araba indirizzasse tutti quei paesi verso la democrazia in pochi anni. In Europa ci sono voluti due secoli, dalla Ri ...[continua]
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