Siamo contenti di ricordare Vittorio Rieser, la cui dedizione alla classe operaia non condizionava affatto la sua attenzione alla realtà, anzi. Qualche anno fa ci fece sapere che considerava ottima l’intervista che avevamo fatto a un “padrone buono” e che avremmo dovuto continuare a farne. Consiglio che purtroppo non siamo ancora riusciti a raccogliere.
Com’è l’odierna condizione operaia?
Rispetto agli anni Sessanta-Settanta c’è un cambiamento ambiguo. Alcune conquiste di allora non sono state del tutto rimangiate o distrutte, ci sono delle eccezioni, ma complessivamente nelle fabbriche oggi si sta meglio che non negli anni Cinquanta e Sessanta; la tendenza al miglioramento non è stata distrutta. Detto questo, va aggiunto che dal punto di vista salariale le condizioni sono peggiorate, ma non hanno riportato gli operai al livello di vita precedente alla grande ondata di lotte. Quando parlavo di cambiamento ambiguo mi riferivo però alle trasformazioni tecnologiche e organizzative che stanno mutando le condizioni di lavoro. L’ambiguità sta nel fatto che queste trasformazioni aprono possibilità di lavori meno faticosi, professionalmente e intellettualmente più ricchi, e questo è l’aspetto positivo, ma dall’altra parte questo si accompagna a un crescente controllo padronale sulla prestazione lavorativa. Quei margini di respiro conquistati rischiano di essere assorbiti dall’azienda fino al millesimo di secondo. Ci sarà un lavoro più intelligente, meno faticoso dal punto di vista fisico, con meno nocività, ma con una tensione tale da produrre stress e da aggravare la perdita di controllo sulle condizioni di lavoro. I giovani sembrano essere quelli che maggiormente puntano sulle prospettive di mutamento nell’organizzazione del lavoro, mentre ovviamente gli anziani non vedono molte possibilità di essere loro a godere di queste nuove possibilità. Questo non vuol dire che gli uni si identifichino con la fabbrica e con il lavoro e gli altri no; la realtà è che i vecchi sono incatenati in qualche modo al posto di lavoro attuale e non vedono alternative, mentre i giovani vedono più possibilità, sia nella fabbrica dove sono, sia scegliendo altri lavori. Quella dei giovani è una prospettiva meno rigida.
Questo significa che fra i giovani c’è minore identificazione di classe?
Questo, francamente, non saprei dirlo, parlo sempre della Fiat, ma non credo che oggi anche fra i vecchi ci sia una grande identificazione di classe. Agli scioperi partecipano di più i giovani che non i vecchi; i vecchi sono rimasti più segnati dalla sconfitta degli anni 80, sono più rassegnati. I giovani sono più combattivi, senza che questo, però, si traduca in una coscienza di classe come la conoscevamo negli anni 70. In realtà la coscienza di classe, così come è definita in termini teorici, è sempre stata difficile da trovare concretamente. Sempre rimanendo alla Fiat, che è un caso abbastanza particolare anche se importante, la forte coscienza di classe degli anni 70 rifletteva il fatto che la fabbrica era il luogo in cui gli operai avevano trovato la loro forza. Era nella fabbrica che erano riusciti a cambiare le cose e avevano una profonda diffidenza, spesso anche di tipo qualunquistico, verso la politica; questa diffidenza è rimasta e si è perso il resto. Oggi dai giovani si sentono facilmente dei discorsi di tipo normalmente democratico, si parla di diritti, anche di adesione alle lotte se si pensa che possano servire, ma senza condirle di un’ideologia anticapitalistica.
La fabbrica ha perso quindi il ruolo centrale che aveva sia nella società che nell’immaginario?
Si, credo di sì, ma va anche detto che questo ruolo centrale è stato mitizzato. Certamente la fabbrica era socialmente centrale, le lotte operaie segnavano il cammino della società, ma l’idea che da lì partisse un processo di mutamento politico, che cominciando dal controllo sulla organizzazione del lavoro arrivasse al controllo sugli investimenti, al "nuovo modello di sviluppo”, fino al potere politico, era minoritaria. Era un’ideologia presente non solo fra gli intellettuali, ma anche fra gli operai, in settori dell’avanguardia politicizzata, ed era centrale per le lotte operaie che c’erano, ma comunque rimaneva minoritaria. Oggi il tessuto di lotte è molto indebolito e la fabbrica è meno centrale. Dal punto di vista strutturale sono convinto che lo sviluppo industriale, non la grande fabbrica, continui a essere centrale per le prospettive future. Nel caso di Torino è perfettamente pensabile, e forse auspicabile, un futuro non centrato sull’industria automobilistica, ma non è pensabile un futuro senza industrie.
E il sindacato? Sembra che, dai primi anni Ottanta in qua, abbia perso il senso del proprio essere...
Sì, e le cause di questa crisi sono molte. Il problema è che c’è stata una fase, che r
...[
continua]
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