Jasminko Halilovic, è il fondatore e direttore del War Childhood Museum di Sarajevo.

Il War Childhood Museum non ha ancora compiuto due anni ma sta già avendo una rilevanza internazionale. È un fenomeno singolare per un’istituzione culturale nata e concepita esclusivamente in Bosnia-Erzegovina. Ma prima di parlare delle ragioni di un tale successo, puoi dire che cos’è il War Childhood Museum?  
È il primo museo al mondo incentrato esclusivamente sull’esperienza di bambini e di adulti la cui infanzia sia stata caratterizzata dall’esperienza della guerra.
È stato aperto nel Gennaio 2017 a seguito di un esteso processo di ricerca e oggi le sue iniziative non sono confinate alla Bosnia-Erzegovina, ma si espandono anche a Libano, Ucraina, Serbia e Stati Uniti, attraverso un’evoluzione che lo sta portando a divenire una piattaforma internazionale per tutte le persone che condividono un vissuto di questo tipo.
La parte principale del War Childhood Museum è costituita dagli effetti personali e dalle storie di coloro che hanno vissuto la guerra; una seconda sezione è dedicata alle testimonianze video di queste persone volte a offrire un ulteriore approfondimento sulla loro esperienza personale.
In ognuna delle nostre mostre includiamo entrambi gli aspetti, e cerchiamo anche di spaziare tra diversi temi, dal momento che le persone non si limitano a esporre la propria storia e le proprie perdite, ma parlano anche di altre cose, come l’educazione durante il periodo della guerra o aneddoti che chiamano in causa la creatività e la resilienza dei bambini, storie di amicizia e di primi amori. Abbiamo cercato di curare l’esibizione in modo da restituire la complessità delle esperienze, impegnandoci a presentare il tutto in un’ottica di dignità: non vogliamo ritrarre queste persone unicamente come vittime passive, ma anche e soprattutto come sopravvissuti che sono stati in grado di resistere, si sono emancipati e si sentono ora pronti a condividere le proprie storie. Ovviamente, dal momento che la guerra in sé è portatrice di esperienze dolorose e di perdita, ci sono anche storie che narrano la scomparsa di affetti come genitori, fratelli e amici, ma la mostra intende tenere sempre presente la complessità di queste esperienze e il fatto che i bambini sono molto più che vittime inermi. Cerchiamo di promuovere questo concetto in contrasto a una visione molto comune in tutto il mondo che li ritrae unicamente come soggetti passivi. Per questa ragione, il War Childhood Museum non è solo una piattaforma espositiva e di ricerca, ma anche un’opera di sensibilizzazione sulla percezione dei più giovani nel contesto dei conflitti armati.  
Com’è nata l’idea di aprire un museo di questo tipo?
L’idea del War Childhood Museum è nata dal libro War Childhood: Sarajevo 1992–1995. Nel 2010 ho iniziato a lavorare a uno scritto che in qualche modo raccogliesse questa esperienza storica, essendo anche io un membro delle generazioni che ­l’hanno vissuta. A giugno ho quindi fatto una sorta di call, di chiamata online aperta alla libera partecipazione, incentrata attorno a una semplice domanda: cos’è stata per te l’infanzia in tempo di guerra? Ho messo dei limiti per le risposte, 160 caratteri (l’equivalente di un messaggio di testo, diciamo) con l’idea di raccogliere più feedback possibili per dar vita a un volume che fosse come un mosaico di queste esperienze. Il riscontro che ho ricevuto però è stato fin da subito molto più forte di quanto mi aspettassi: hanno risposto centinaia di persone e ho ricevuto più di mille risposte nell’arco di tre mesi. A quel punto ho capito che, anche vent’anni dopo la guerra, le persone, per lo meno in Bosnia-Erzegovina, non avevano realmente avuto la possibilità di parlare della loro esperienza, soprattutto coloro che erano bambini durante il conflitto.
Dopo la guerra, sono nate centinaia di iniziative, per lo più libri, film, progetti di ricerca ecc., ma tutti riportavano i fatti dal punto di vista di un giornalista, di un soldato, di un politico; nessuno aveva mai indagato la prospettiva di un bambino.
A quel punto mi sono deciso a tentare di colmare questo vuoto, offrendo un mio contributo alla documentazione storica che andasse in questo senso. L’interesse attorno al progetto è stato veramente grande, tantissime persone volevano partecipare e inviare i loro racconti. Inizialmente credevo di poter concludere l’assemblaggio dei contenuti in un paio di mesi; in realtà mi ci sono voluti più di ...[continua]

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