Vorremmo cominciare con una questione di fondo: come si definisce una domanda filosofica? A cosa serve la filosofia?
Sarei portato a dire che la domanda filosofica nasce dall’interrogarsi sul senso e sul significato della vita stessa. Quindi possiede un carattere problematico, finalizzato a un incremento delle domande. Infatti la filosofia non consiste nella ricerca di una risposta, ma è una prassi concettuale che ci permette di incrementare le domande. La mia posizione è quella di Socrate: il filosofo dichiara sempre la propria ignoranza e su questa base, affermando di non sapere nulla, entra in dialogo con i suoi concittadini perseguendo il tentativo di riuscire a chiarirsi le idee. Per questa ragione pone domande aperte, che risultano imbarazzanti. A tutte queste domande imbarazzanti la democrazia ateniese riserva allora una buona dose di cicuta perché la vita normale non ama essere turbata da dubbi. Tuttavia si potrebbe anche osservare che attualmente la nostra democrazia non riserva a questi filosofi alcuna dose di cicuta, al contrario, li ricerca. La mia domanda è allora questa: il valore della filosofia si misura forse nella quantità di cicuta a lei riservata? Se guardiamo alla storia del pensiero filosofico constatiamo che quando il filosofo solleva questioni aperte, spesso la società risponde con la cicuta o con autentici roghi.
Anche oggi, soprattutto nell’università, la filosofia e, in generale, le discipline umanistiche costituiscono la Cenerentola istituzionale, cui è riservato un destino marginale rispetto alle discipline “dure” che sono al centro dell’interesse e anche dei finanziamenti. Del resto, non sono neppure mancati ministri che si sono chiesti a cosa “serva” la filosofia. Posizioni emblematiche cui si può rispondere che la forza della filosofia si radica proprio nella sua inutilità. Infatti la filosofia non serve a nulla e proprio questa costituisce la sua forza dirompente. Perché la filosofia ci aiuta a pensare e apre così una riflessione critica che spazia sull’intero mondo.
Se poi guardiamo alla storia del pensiero filosofico occidentale, non è difficile accorgersi che esiste anche una sorta di “spartiacque” tra la tradizione che precede e quella che segue la “rivoluzione copernicana” di Immanuel Kant. Kant sottrae infatti alla filosofia proprio quello che la precedente tradizione metafisica le aveva attribuito: prima di questa rivoluzione si pensava che come la fisica possiede un suo oggetto (lo studio del mondo fisico), la matematica possiede un suo oggetto (lo studio del mondo matematico), la musica ha un suo oggetto (ovvero la composizione delle sinfonie, dei suoni, ecc.), così anche la filosofia avrebbe avuto un suo oggetto, la metafisica. Kant invece afferma che la filosofia non possiede alcun oggetto privilegiato.
Il che determina una nutrita serie di conseguenze. Infatti se Kant ha ragione, allora la filosofia ha, in primo luogo, il preciso dovere di studiare quello su cui vuole riflettere. Non si dovrebbe infatti parlare di qualcosa che si ignora. Se voglio parlare di scienza vado a studiare la scienza, se voglio parlare di religione vado a studiare la religione, e così via. Nell’ottica kantiana la filosofia non può che configurarsi come una “filosofia della…”, ovvero una filosofia che prende a suo oggetto privilegiato di studio vari ambiti di indagine creando così la filosofia della scienza, la filosofia della morale, la filosofia della religione… Questa insistenza sul “del” vuol appunto sottolineare come il contenuto della filosofia venga fornito dalla disciplina di cui si vuol parlare filosoficamente. La filosofia deve così andare a studiare questo “qualcos’altro”. Ma, compiuto questo passo, la filosofia entra dentro le discipline e lo fa sempre con un “occhio critico” che è quello di Socrate, ovvero un occhio imbarazzante che solleva interrogativi.
Prendiam ...[continua]
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