Qual è stato il tuo percorso? Tu avevi studiato giurisprudenza, come sei finito a lavorare in Afghanistan?
Ho studiato giurisprudenza con grande interesse, una materia decisamente affascinante. E accanto c’era la fisioterapia, da sempre la mia passione, all’inizio un hobby. Non tanto la fisioterapia sportiva, quella per i campioni, ma per persone con patologie. Intorno ai trent’anni mi sono trovato a chiedermi se volessi veramente fare l’avvocato. Mi piaceva molto viaggiare. Di lì l’idea di far diventare la fisioterapia il mio mestiere e magari appunto viaggiare. Il mio sogno era l’Africa. E così ho fatto. Ho iniziato in Sudan dove sono rimasto tre anni. Lì ho conosciuto la Croce Rossa Internazionale, ho mandato una lettera: “Cara Croce Rossa, sono un fisioterapista, sono disponibile...”. Mi hanno proposto un posto in Kenya, ma poi all’ultimo momento: “Se invece fosse Afghanistan, andrebbe bene lo stesso?”. Ho risposto di sì. Ricordo un dettaglio buffo. Avevo chiesto notizie sul clima del paese, non ne sapevo niente. La signora da Ginevra rispose: “Kabul è come Saint Moritz”. Capii solo dopo un momento che alludeva all’altimetria.
Sono arrivato a Kabul come fisioterapista dell’ospedale di guerra della Croce Rossa Internazionale. Un impatto non facile, non conoscendo nulla della vita in tempo di guerra, né di quella specifica fisioterapia. La maggior parte dei pazienti presentava dei traumi causati dalle mine. Duro è stato non tanto il lavoro, quello si impara, ma il senso di terribile ingiustizia. Lo si palpava nell’aria. Entrare in una corsia con un’ottantina di persone quasi tutti giovani amputati alle gambe o alle braccia. Come poteva accadere? Come scegliere di piazzare delle mine sapendo che colpiranno vittime innocenti, che renderanno larghe zone del paese invivibili per anni?
Puoi raccontare qual era il tuo lavoro nello specifico?
Mi occupavo di riabilitazione fisica, di rimettere letteralmente in piedi i pazienti, aiutarli a recuperare fisicamente dopo l’intervento. A coloro che avevano subìto un’amputazione si insegnava a usare ciò che rimaneva dell’arto, preparandoli a ricevere una protesi. Un lavoro tecnicamente semplice.
In Italia gli amputati sono per lo più anziani con problemi vascolari, affetti dal diabete e altre patologie, persone non particolarmente motivate, consapevoli di poter contare sul sistema sanitario. In Afghanistan è diverso: le vittime sono giovani in buona salute, in genere motivati a riprendere. Mancando un aiuto dallo stato, sanno di doversi arrangiare, o cammini o niente. Tra loro non manca naturalmente chi non accetta la nuova condizione e va convinto.
Per parecchio tempo ci siamo occupati solo di riabilitazione fisica, ma presto mi resi conto che la protesi non bastava. Ricevutala ringraziavano, aggiungendo: “E adesso? Cosa sarà di me?”. Chiedevano altro, volevano inclusione, reinserimento sociale. Ne abbiamo discusso con la direzione della Croce Rossa a Ginevra per ottenere fondi, ma la risposta è stata: “Spiacenti, non è il nostro campo, la nostra specialità”. Che fare? Rinunciare? No. Siamo ricorsi a donazioni private di amici e conoscenti, con la Croce Rossa ad ammonirci di essere prudenti: insuccesso ed errori avrebbero portato danno al nome dell’intera istituzione. Era il 1997. I talebani, presa Kabul nel ’96, governavano su buona parte del paese con decreti e divieti sconcertanti (come ora).
Abbiamo cominciato suddividendo i bisogni delle persone disabili in base all’età: istruzione per i bambini: se non possono andare a scuola, offrire loro insegnamento a domicilio; per i ragazzi più grandi invece, oltre alla scuola, corsi professionali per imparare un mestiere; gli adulti vanno aiutati nella ricerca di un lavoro o con un micro prestito che permetta loro di iniziare un’attività commerciale.
Circa la scuola a domicilio, devo ammettere che siamo stati molto fortunati. Jawad, il primo b ...[continua]
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