Da tempo ti occupi di adolescenza, rispetto a marginalità, devianza e vulnerabilità. Puoi raccontare?
Sono una maestra di scuola primaria che per tanti anni ha insegnato. A un certo punto della mia vita, circa dieci anni fa, ho iniziato una collaborazione con l’università, prima di Padova e poi di Verona, nella formazione dei nuovi insegnanti. Proprio nell’ambito di questa esperienza, ho iniziato a interessarmi alla pedagogia interculturale; nel frattempo avevo cambiato scuola ed ero entrata in un contesto con un forte background migratorio. Mi sono appassionata a questi temi riuscendo infine a realizzare quello che era un po’ un mio sogno, cioè fare un dottorato di pedagogia proprio sulla vulnerabilità e la devianza nell’adolescenza, potendo così approfondire un tema che ho vissuto personalmente.
Già mentre lavoravo nella primaria, all’interno della scuola, attraverso degli incarichi, svolgevo infatti delle funzioni che mi portavano a essere in contatto con i ragazzini della scuola media, quindi ne conoscevo tanti. Ricordo che già allora mi avevano incuriosito queste ragazzine che nel diario avevano scritte come “I love Qbr”, eccetera. Qbr è una cosiddetta “baby gang”. Nel luglio di tre anni fa sono stati arrestati i ragazzi un po’ più grandi, ma esiste ancora come realtà. Potrebbe essere l’acronimo di “quei bravi ragazzi” o di “quartiere Borgo Roma”; non è molto chiaro perché loro non lo dicono, è un mondo molto omertoso. È un gruppo misto; c’è una componente di etnia araba, ma poi ci sono anche romeni e italiani; purtroppo sono uniti dalle cose sbagliate, dalle marginalità...
Comunque c’erano queste ragazzine molto attratte da questa cosa. Parallelamente cosa mi succede? Un ragazzino di quarta, che non era un mio alunno, mi ferma un giorno nei corridoi e mi mostra un paio di scarpe: “Visto che belle scarpe che ho?”, il giorno prima aveva anche una felpa nuova. Insomma, mi racconta che lui praticamente aveva ricevuto queste scarpe, la felpa e altri regali perché portava un pacchettino in autobus dalla zona vicina a scuola a una zona periferica di Verona; consegnava il pacchetto, ne riprendeva un altro e poi lo riportava.
Da questa sorta di “inciampo” ho iniziato a interessarmi a questa realtà. Io conosco il mio quartiere, parlando con il parroco mi è stato segnalato che nella piazza antistante la chiesa si incontravano dei ragazzi, anche grandicelli, 17-18 anni.
È quindi iniziato un movimento di avvicinamento verso questi ragazzi, una prima conoscenza. Il parroco già faceva delle cose. Con una mia amica educatrice abbiamo dunque provato ad approcciarli, parlando del più e del meno: “Cosa fate, come vi chiamate?”. Si è cominciato così a costruire una relazione, da cui poi è uscita la proposta di alcune attività.
Ogni quindici giorni, nelle sale parrocchiali, il sabato sera, abbiamo organizzato una cena e poi la visione di un film. Le prime volte era tutto gestito da noi adulti: questa ragazza e io acquistavamo le cose, sceglievamo il film e offrivamo loro uno spazio per incontrarsi. Intanto era arrivato l’inverno… Dopo un po’ abbiamo provato a fare un passo ulteriore: “La volta prossima le bibite le portate voi”; volevamo che fosse una cosa condivisa; avevano già il compito di apparecchiare, di sparecchiare, di ripulire. È cominciata così.
Come siete riuscite a conquistare la loro fiducia? Com’è stato il primo approccio?
Il primo approccio è stato molto cauto; non eravamo le persone che li bacchettavano perché mangiavano e lasciavano tutto per terra. Anche se più avanti, una volta conosciutici, c’era la confidenza per dire: “Per piacere, raccogli”.
Praticamente ci siamo avvicinate molto semplicemente: “Ciao ragazzi, come state?”. Ad aiutarci poi è stata la presenza di quel ragazzino che aveva parlato bene di me e quindi sono stata accolta: “Ciao maestra, come stai?”. Cosa vuoi, la mia amica è più giovane, ma io sono più vecchia delle loro mamme, mi chiamavano la “signora gentile”; dicevano: “Perché tu, signora gentile, perdi tempo con noi?”. Quindi avevano capito che c’era qualcosa, che li ascoltavo con interesse sincero e allora mi raccontavano e accettavano che io ascoltassi anche quando parlavano del processo. Io però non potevo fare domande, chiedere chiarimenti; l’ho fatto una vo ...[continua]
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