Raffaele Tecce è assessore alla normalità del Comune di Napoli. Milita in Rifondazione comunista.

Visto il peso che l’economia sommersa ha a Napoli, si può smentire che questa città sia la capitale della disoccupazione?
In primo luogo, si deve ricordare che il mercato del lavoro di tutto il meridione, non solo di Napoli, è caratterizzato dall’inoccupazione intellettuale di massa.
Un’intera generazione, quella successiva alla mia, si è diplomata, in alcuni casi si è laureata, e di fatto non ha mai avuto rapporti con il lavoro vero.
C’è, poi, un’altra fascia di soggetti tra i 40 e i 50 anni, composta da espulsi dal mercato del lavoro, in particolare dalla piccola industria e dall’artigianato.
Infine, c’è un altro segmento di inoccupati privi di scolarità. Questo è il nocciolo duro della disoccupazione meridionale, popolare ed endemica, dove spesso si intrecciano fenomeni di abusivismo e criminalità.
Quindi, per rispondere alla domanda, a Napoli c’è disoccupazione.
E poi, Napoli è stata una città industriale. Lo era quando si passò dal regno borbonico al regno d’Italia. Lo era ancor di più negli anni Sessanta con le due aree industriali, quella di Bagnoli, legata al siderurgico, e la zona orientale, legata alla piccola e media impresa. Intorno ad esse si costituirono altre aree industriali in tutta la provincia: la zona flegrea, la zona di Casoria, la zona pomiglianese... Questa industrializzazione però era il frutto dell’intervento dello Stato. Per questo, con la crisi delle partecipazioni statali a partire dagli anni Settanta, è l’intero apparato industriale ad andare in crisi, perché le partecipazioni statali erano il volano intorno a cui si era sviluppata l’industria privata e un artigianato, talora legalizzato, talora abusivo, che svolgeva funzioni di subfornitura. Purtroppo, il ruolo delle partecipazioni statali non è stato sostituito da un’industria privata che punti a un ruolo di sviluppo produttivo. Ecco allora le casse integrazioni e le mobilità degli anni Ottanta, che da noi sono mobilità dal lavoro alla disoccupazione, non da un posto a un altro.
Prossimamente, nella zona flegrea partirà un grandioso progetto di riqualificazione ambientale che sostituirà l’economia dell’acciaio con il turismo. Ma nell’immediato 15 mila posti di lavoro non ci sono più. Nella zona orientale, nell’ultimo ventennio, si sono persi 30 mila posti di lavoro. Quando in una città come questa si perdono così tanti posti di lavoro e nel frattempo nuove possibilità, come il turismo e i beni culturali, cui anch’io credo, non hanno ancora un ruolo dinamico, sorge il problema di quale strategia debba avere lo Stato nei confronti della disoccupazione di massa.
In questo senso, il progetto Urban, che in due quartieri di Napoli punta a far emergere attività manifatturiere sommerse, può essere una risposta all’emergenza occupazione?
Il bando di Urban è una cartina di tornasole, perché abbiamo già censito circa 450 imprese nei Quartieri Spagnoli e alla Sanità che più o meno abusivamente svolgono un’attività.
Alla Sanità prevalgono la lavorazione di scarpe e l’artigianato artistico. Agli Spagnoli, invece, la lavorazione delle pelli, il tessile e qualcosa nel campo meccanico. Con questo progetto noi facciamo una scelta politica radicale.
Preferiamo rischiare i fondi di garanzia, perché i soldi arrivano dall’Artigiancassa sulla base di una nostra copertura al 75%, grazie ai fondi europei. Teniamo presente che nessuno di questi soggetti potrebbe fornire alcuna garanzia se dovesse chiedere un finanziamento a un qualsiasi istituto di credito. Questo vuol dire che, se viene dato un contributo di 60 milioni a un artigiano sulla base di un progetto che punta a valorizzare la sua capacità di lavoro, in caso di fallimento il 75% della somma investita lo perde il Comune, il 25% l’erogatore finanziario, cioè l’Artigiancassa. Non ho difficoltà ad affermare che se anche noi dovessimo avere un insoluto del 20-30%, dei due miliardi messi in campo, lo considererei molto meno grave di tanti soldi sprecati in questi anni per una formazione professionale che non formava nessuno. Negli anni Ottanta, un decennio drammatico, a Napoli e in tutto il Sud è stata fatta un’operazione di illusione culturale: abbiamo chiamato "lavoro" la formazione e "formazione non finalizzata" l’assistenza. Dobbiamo invece puntare sul lavoro, lavoro vero e produttivo, soprattutto nel campo manifatturiero.
In che senso il sommerso può essere una risorsa per ...[continua]

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