Marianella Sclavi insegna Antropologia presso il Politecnico di Milano. Ha pubblicato La signora va nel Bronx (Anabasi) e A una spanna da terra (Feltrinelli).

In un’intervista di alcuni numeri fa Guido Armellini, in polemica con la pedagogia corrente, invitava a rimettere al centro dell’insegnamento la relazione professore-studente. Qual è il problema principale del rapporto tra insegnanti e studenti?
Questo è un problema anche teorico ed epistemologico: qual è l’elemento più importante per far funzionare un rapporto umano? A mio avviso è la capacità di gestire i conflitti in modo creativo, di valorizzare il conflitto come un modo per riaffermare il riconoscimento e il rispetto reciproco. Questo non significa applicare una certa metodologia didattica, pedagogica o un’altra, ma proprio andare al cuore della dinamica del rapporto. Partire dal conflitto significa necessariamente distinguere il livello relazionale da quello dei comportamenti. Nel libro Buone notizie dalla scuola, nell’intervento sulle emozioni, faccio l’esempio standard del conflitto: se una persona mi dà un pugno e io rispondo dando a mia volta un pugno, a livello del comportamento mi oppongo, a livello della relazione collaboro, perché dandomi il pugno mi invita alla lotta e io collaboro alla lotta. Quindi il conflitto è il momento della verità del modo in cui le persone costruiscono le cornici del senso reciproco.
Diciamo allora che la dote dei bravi insegnanti che operano in condizioni difficili, in quartieri a rischio, non è ascrivibile a una competenza professionale di tipo specifico, ma è da ricondurre a una competenza di comunicativa generale, a quella, cioè, che è una competenza di base di ogni essere umano: sapersi relazionare all’altro attraverso la strada del riconoscimento e rispetto nonostante il dissenso. Il che vuol dire, nel campo delle scienze sociali, essere allenati ad una ermeneutica pratica dell’osservare, dell’ascoltare, della comunicazione a partire dalla conflittualità. Ecco, un allenamento all’ascolto attivo: saper accogliere il punto di vista dell’altro anche se è opposto al nostro, senza rinunciare al nostro. Significa passare da un’abitudine a un pensiero del tipo: "Io ho ragione, tu hai torto", o viceversa, a un pensiero in cui tutti hanno ragione e nello stesso tempo non possono averla tutti. E’ la situazione del giudice saggio che ascolta il primo litigante e gli dice: "Hai ragione", ascolta il secondo litigante e gli dice: "Hai ragione", e a una terza persona che si è alzata e ha detto: "Ma non possono aver ragione tutti e due", risponde: "Hai ragione anche tu".
E’ esattamente questo a cui bisogna allenarsi, perché questa è la magia che consente questa dinamica: io devo riconoscere che quello lì ha ragione, nello stesso tempo ho ragione io che la penso e continuo a pensarla in modo opposto, e però non possiamo aver ragione entrambi, quindi dobbiamo metacomunicare su come vediamo il mondo e non solo nel merito.
Tutte queste situazioni richiedono una messa in discussione della relazione, non tanto dei comportamenti, perché attraverso la relazione poi anche i comportamenti cambiano.
Tu nel tuo libro fai riferimento a questa scuola di Harlem...
L’esperienza di questa scuola di Harlem è raccontata in un libro intitolato Miracolo ad Harlem. Tutto inizia dal fatto che a una signora che io ho conosciuto, Debora Mayer, che aveva insegnato in varie scuole, è stato proposto dal provveditore agli studi di New York di fare una sperimentazione molto libera. Quindi una scuola pubblica però in totale autonomia. Ora, lì tutte le scuole erano dei veri manicomi, con gli insegnanti costretti a far le ronde, a fare i poliziotti, in un clima di sfiducia radicale e di comunicazione offensivo-difensiva reciproca che si riproduceva in continuazione. Allora, come fare a bucare questa bolla di sospetto e innestare un rapporto umano di tipo diverso?
La Mayer, per accettare, ha posto le sue condizioni. Una è stata che le ispezioni, almeno quelle ufficiali, per veder come stava funzionando l’esperienza, fossero posticipate di due anni. Potevano andar lì in ogni momento a vedere, però per una valutazione ufficiale e organica doveva passare un po’ di tempo, quello necessario perché l’esperienza potesse crescere. L’altra condizione è stata quella di poter scegliere quali insegnanti andavano bene, e questo è stato certamente fondamentale. Ma attenzione, di solito si pensa che per certe esperienze ci vogliono delle persone sup ...[continua]

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