Sergio Bologna, docente di Storia del movimento operaio e della società industriale, fa parte della Fondazione di Amburgo per la storia sociale del xx secolo. E’ presidente della Libera Università di Milano. Ha recentemente pubblicato per la Feltrinelli Il lavoro autonomo di seconda generazione.

Che cosa s’intende con “lavoro autonomo di seconda generazione” e cosa lo distingue da quello tradizionale?
E’ una specie di trovata semantica: si voleva trovare una definizione che mettesse in evidenza lo stacco storico che c’è stato, fornendo anche una definizione per la figura del lavoratore della fase post-fordistica.
Il lavoro autonomo o indipendente è sempre esistito, ma è stato considerato una realtà precapitalistica, sopravvissuta dentro il capitalismo, dentro il fordismo. Era importante mettere in risalto il passaggio ad una fase in cui queste figure trovano una propria configurazione dentro il sistema di produzione.
Oggi, infatti, è indubbio che ci troviamo di fronte ad un lavoro autonomo di seconda generazione.
Per intenderci, come il lavoro operaio ha caratterizzato il sistema fordista, così oggi il lavoro autonomo è centrale nella fase postfordista. Questa analisi trova delle critiche da parte di chi afferma che viene enfatizzata una figura dandogli un ruolo epocale eccessivo. Trovo tale osservazione molto generica: non ci si può limitare a dire che cambia anche il lavoro autonomo per il semplice fatto che il lavoro sta mutando un po’ in tutti i settori. Il problema è il cambiamento del modello produttivo.
Post-fordismo sarà un nome poco azzeccato, ma è una realtà tangibile, dove è evidente il mutamento delle figure professionali. Quindi parlare di seconda generazione è evitare che il tutto venga soffocato nell’analisi generica, nel “Tutto cambia niente cambia”, come, per esempio, fa il sindacato: è da quindici anni, dai tempi della sconfitta alla Fiat che ci sentiamo dire: “tutto è mutato, tutto sta mutando”. Dopodiché non si specifica mai come, dove, quando e soprattutto non si propone un’analisi a partire dalle nuove figure lavorative.
Ormai il sindacato, la sinistra, hanno accettato il concetto di toyotismo, postfordismo, ma non sono riusciti a dare a questo un corrispettivo sul piano del lavoro e quindi sono rimasti sempre vittime delle analisi che leggevano il passaggio epocale come passaggio delle forme d’impresa.
Nel libro il lavoro autonomo viene visto come realtà positiva, come valorizzazione dell’individuo, della cultura del “far da sé”, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, le tendenze individualistiche, ad esempio...
Nel momento in cui indaghiamo una figura lavorativa, dobbiamo applicare di nuovo l’analisi marxiana del “doppio carattere” della forza lavoro. C’è sempre un Giano bifronte: esiste nel lavoro autonomo una componente di maggiore libertà e una di maggiore costrizione, addirittura superiore a quella del lavoro salariato. Solo tenendo assieme questi aspetti ambivalenti si può arrivare a dare una definizione chiara. In un recente articolo avevo enfatizzato soprattutto la situazione di costrizione subìta dal lavoratore autonomo: almeno l’operaio massa aveva una struttura di autodifesa, di negoziazione, e una serie di obiettivi di contrattazione, come il contenimento e la regolamentazione delle condizioni di lavoro. Questo nel lavoro autonomo salta. Ci troviamo di fronte a una figura che, dal punto di vista delle gerarchie sociali, si trova sempre all’ultimo gradino della sfera esecutiva con in più la mancanza di adeguati strumenti di negoziazione. Invece nel libro ho scelto di accentuare l’altro aspetto del Giano bifronte, che non è un aspetto oggettivo.
E’ importante notare che mentre i lati negativi e di subordinazione sono oggettivi, gli aspetti positivi sono legati alla capacità del lavoro autonomo d’inventarsi momenti liberatori. Questo è vero anche per la classe operaia che è riuscita, in parte, a liberarsi di condizioni lavorative sicuramente subalterne, grazie allo sviluppo di strumenti politici, culturali e sindacali. Se il lavoratore autonomo non fa questo stesso tentativo, rischia di rimanere una specie di operaio massa più sfruttato.
Non è un po’ forzato questo paragone con l’operaio massa? Nel lavoro autonomo, oltre ai settori di precariato, ne esistono altri dove forte è l’arricchimento...
Non possiamo continuare ad applicare dei parametri che sono esclusivamente basati sul reddito. Dobbiamo misurare quest’ultimo anche in rapporto alla ...[continua]

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