Luigi Bobbio insegna presso un corso di specializzazione per il conseguimento del Master in analisi delle politiche pubbliche, Corep, a Torino. Recentemente ha pubblicato, con Alberico Zeppetella, “Perché proprio qui?” Franco Angeli, 1999.

Tu ti stai occupando dei problemi che si creano quando si devono localizzare impianti di pubblica utilità, ma altamente sgradevoli per il territorio che li ospita. Problemi che hanno a che fare anche con la democrazia. Puoi raccontarci?
Da molti anni mi interesso alle problematiche legate ai conflitti che sorgono quando si decide la localizzazione di impianti sgradevoli, indesiderati. Si tratta di infrastrutture che recano benefici alla collettività, o almeno si suppone lo facciano, ma che sono dannose per le comunità che le ricevono, perché comportano svantaggi, possibili danni alla salute, e comunque disturbano. C’è una quantità enorme di impianti che ricadono in questo categoria: le autostrade, la Tav, gli elettrodotti, ultimamente le antenne dei telefonini, tutti, senza esclusione, gli impianti che trattano, smaltiscono, inceneriscono, stoccano, rifiuti, le dighe, gli aeroporti (pensiamo al rumore di Malpensa), eccetera.
Ora, risolvere un conflitto tra interessi generali e interessi particolaristici, locali, è una bella sfida per la democrazia. Intanto in un conflitto di questo genere tutti hanno delle ragioni; hanno ragione quelli che vogliono evitare che i rifiuti vengano smaltiti dalla mafia o per strada, ma hanno ragione anche quelli che non vogliono avere la discarica sotto casa. E questo vale per gli aeroporti o qualsiasi altra cosa. I cittadini che abitano vicino alla Malpensa non hanno proprio tutti i torti se pretendono di dormire la notte; d’altra parte è abbastanza ovvio che la pianura padana debba avere un grande aeroporto.
Cosa succedeva in passato?
In passato questi nodi venivano tagliati in modo netto dallo Stato: gli interessi generali tendevano a prevalere su quelli locali in modo incontrovertibile. E lo vediamo dappertutto: elettrodotti che passano su delle case, zampe di viadotti delle autostrade in mezzo a paesini. Però da un po’ di tempo a questa parte, e per fortuna, assistiamo a una rivitalizzazione degli ambiti locali, a una presa di coscienza, a una ripresa di spirito comunitario, chiamiamolo come vogliamo, per cui diventa sempre più difficile fare cose di questo genere. In fondo, questo è un segno di maturità democratica, perché significa che le piccole comunità hanno più strumenti per difendersi e per far valere le loro ragioni. E quasi sempre sono in grado, non dico di bloccare (anche se spesso ci riescono), ma comunque di mettere i bastoni tra le ruote ai progettisti, ai proponenti, procurando ritardi, tirando per le lunghe, creando costi aggiuntivi.
D’altra parte questa tendenza è in atto in tutto il mondo. L’Italia è arrivata in ritardo. In giro per il mondo ci sono molte esperienze di questo genere. In America è stata anche coniata la parola “Nimby” dalle iniziali di “not in my back yard”, “non nel mio cortile”. Ecco, io mi occupo proprio di questo. Nimby è un’espressione malevola, perché dicendo: “non da me”, sottintende: “Bensì da qualcun altro”, ma la possiamo certamente riprendere anche nel senso più positivo di una tutela degli interessi locali.
Due anni fa, tra l’altro, insieme a un mio amico, Alberico Zeppetella, avevamo studiato tre casi di questo tipo che si erano risolti praticamente in un fallimento per il proponente. Si trattava di tre grandi aziende italiane: la Fiat che voleva mettere un inceneritore di rifiuti industriali vicino a Biella, la Snam che voleva mettere un impianto di gasificazione di metano nigeriano trasportato in forma congelata su grandi navi, a Monfalcone, e l’Enel che, in un progetto insieme all’Elf francese, voleva costruire un elettrodotto per importare energia dalla Francia attraverso il Monginevro. In tutti e tre i casi ci furono proteste e, con qualche variante, la cosa non si fece. Quel libro l’avevamo intitolato “Perché proprio qui?”, perché in fondo il grido delle comunità locali era questo. Che era un po’ diverso dal dire “non qui”.
Questo mi era sembrato un po’ il nodo perché poi nessuno era in grado di rispondere. Perché la Fiat voleva mettere l’inceneritore proprio vicino a Biella? Chiaro: perché aveva lì un terreno di proprietà e perché, come posizione, era al centro dei suoi stabilimenti piemontesi e lombardi. E però dal punto di vista delle comunità questi non erano ...[continua]

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