Il libro è nato dall’idea di Rosetta Flaiano di fare un libro di interviste alle madri. Mi spaventava la difficoltà di rendere in un’intervista, scritta soprattutto, la ricchezza e la vivezza di un incontro. Poi, continuando a parlarne abbiamo scoperto di conoscere tanta gente famosa con storie di questo tipo in famiglia e ci è sembrato che chiedere ad alcune di queste persone di raccontare la propria esperienza potesse essere un modo per buttar giù il muro di silenzio che circonda il problema. Finora c’è stato per questo libro un ascolto che difficilmente ci sarebbe stato in altre situazioni, un ascolto certamente dovuto al fatto che la maggior parte degli autori di questo libro sono letterati di una certa notorietà e poi anche alla loro capacità di coinvolgere attraverso la scrittura.
Siamo ancora ai primi passi e le difficoltà sono grosse, nel senso che mentre la stampa, anche quella da cui mi aspettavo il peggio, ha recepito l’impostazione del libro e non è andata particolarmente a scandagliare fra le pieghe del dolore di queste esperienze, negli incontri pubblici viene fuori un meccanismo del genere: “fateci vedere quanto state male voi, così noi ci sentiamo meglio”. L’ultimo incontro è stato particolarmente violento, con l’intervento di un luminare della neuropsichiatria infantile venuto a raccontarci i suoi sensi di colpa, parlando del caso della figlia di Flaiano: che sarebbe stato meglio lasciare morire, così poi non ci sarebbero stati gli infarti del padre e la letteratura italiana ne avrebbe beneficiato. Credo sia anche legittimo che chi fa queste professioni abbia una propria sofferenza e anche il diritto di esprimerla in certi luoghi, ma non dovrebbe venire a raccontarla a noi che già ne abbiamo abbastanza.

Che cosa significa guardare la sofferenza?
L’atteggiamento “poverina come soffri” che è di non condivisione, di esclusione, perché sottintende anche “meno male che è toccato a te, così sto meglio io”, è abbastanza trasversale, non è questione di destra o sinistra, è molto diffuso, anche molto umano, tutti noi, in qualche modo, ci rassicuriamo misurandoci, però è un confronto che rischia di essere molto feroce. Quello che allora mi sembra di avere capito è che se qualcuno viene a dirmi “come ti sono vicino, come mi sento toccato da questo discorso” io gli devo rispondere: “benissimo, allora ci sono moltissime cose da fare, proprio concretamente”. Hai un figlio a scuola? Comincia a verificare cosa succede agli handicappati nella sua scuola, qual è il loro livello di integrazione. Insomma, credo che per chiunque ci sia una cosa da fare, persino una vendita di beneficenza, che fra tutte le cose è quella che mi piace di meno... Credo che sia l’unico modo per non limitarsi a questo atteggiamento un po’ vampiresco che spesso sento e che, ovviamente, mi infastidisce molto, un atteggiamento che, d’altra parte, dipende anche dal fatto -e mi rivolgo soprattutto a sinistra- che in realtà una cultura della solidarietà si è persa. Alle origini c’erano, ad esempio, le società di mutuo soccorso, dopodiché è stato un terreno delegato soprattutto ai cattolici e, salvo la mobilitazione in caso di catastrofi, si è proprio persa l’abitudine alla condivisione. E’ completamente sparita l’attenzione al problema del vicino di pianerottolo. Anche da parte di chi ha buona volontà non si sa più cosa fare. Ma la solidarietà attiva è anche quella che consente di agire il proprio disagio. Il rapporto di ognuno di noi con un disagio, quale che sia, è difficile, perché ti mette in gioco. Il rapporto col matto è il rapporto con la parte matta di noi, che tutti abbiamo e che in genere preferiamo mettere da parte, che ci serve mettere da parte sennò diventiamo matti. Se si ha un filtro “attivo” per potersi confrontare con questa difficoltà oggettiva è un discorso, ma se tutto quello che si riesce a fare è stare lì a rimirarla, è finita. Mi sembra quindi molto importante trovare dei canali di solidarietà attiva che possano spostare il modo di essere di tutti. Se pensiamo ad una società partendo dagli ultimi, si fa una società migliore per tutti. In una città con le barriere architettoniche non può girare l’invalido in carrozzella, ma trova difficoltà anche una mamma col passeggino o un anziano. Un handicappato psichico non lo si può mettere ad una catena di montaggio, ma a chi fa bene una catena di montaggio?
La ghettizzazione, il “meno ti vedo e meglio sto”, la richiesta di scomparire è prevalente. Ma già in ...[continua]

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