Pubblichiamo l’intervento tenuto da Guido Melis, in occasione del Convegno: L’Affaire Dreyfus-l’affare Sofri, tenutosi lo scorso dicembre presso l’Università di Roma. All’incontro hanno partecipato anche Vidal Nacquet, Carlo Ginzburg e Salvatore Mannuzzu, coordinati da Jacqueline Risset.

1. Confesso d’aver avuto qualche perplessità nell’accettare la prospettiva, propostaci da Jacqueline Risset, di ragionare comparativamente su Affaire Dreyfus e caso Sofri, Bompressi, Pietrostefani.
E’ quasi banale osservare che i due episodi sono molto diversi. Gli elementi che li diversificano sono anzi più di quelli che li unificano. Tuttavia, rileggendo un po’ della vastissima letteratura su Dreyfus, due punti mi hanno molto colpito.
Il primo è che la persecuzione contro Dreyfus nasce -quasi occasionalmente- da quella che oggi chiameremmo un’attività di depistaggio messa in opera dai servizi -le Service de renseignement del’Armée-, anzi da un pugno di uomini dei servizi segreti. Trova poi l’ambiente favorevole di un’opinione pubblica che è pronta a credere alla falsa pista perché già carica di umori nazionalistici e antisemiti. Si nutre quindi degli incitamenti di un giornalismo declamatorio, incapace di leggere in proprio la realtà. Si avvale infine di una impressionante serie di connivenze dell’amministrazione e della classe di governo francese.
L’apparato della giustizia militare decide nel 1894 la condanna di Dreyfus applicando meccanicamente una procedura nella quale l’inesistenza delle prove (le poche che vengono presentate sono false) è compensata da una sorta di effetto-valanga: una serie di sillogismi, l’uno ricalcato sull’altro, consente di non verificare mai il sillogismo iniziale (cioè il coinvolgimento concreto di Dreyfus) e di giungere alla condanna come fosse nient’altro che l’esito fatale di un procedimento apparentemente corretto. La correttezza astratta del procedimento, cioè del sistema di regole meccanicamente applicato, è quello che conta veramente. Non la concretezza del fatto, non la sua dimostrabilità. Si dirà, per tacitare i difensori di Dreyfus e della verità: "Ma i giudici hanno deciso all’unanimità". Si dirà, per giustificare a posteriori la degradazione pubblica e la deportazione all’Ile du Diable: "Ma il condannato ha tenuto un atteggiamento sprezzante, innaturalmente orgoglioso davanti ai plotoni schierati. Se non fosse un traditore, se avesse davvero tenuto alla divisa e non fosse l’agente di un’internazionale ebraica dissolutrice della Francia, si dispererebbe. Tiene un contegno riservato. E’ antipatico, freddo, senza passioni, ha la voce metallica. Dunque è colpevole". (Ricordiamocelo, questo motivo della personalità orgogliosa e antipatica dell’imputato, e proviamo a ripercorrere in questa chiave le cronache dei processi Sofri). Insomma, se c’è un dato che colpisce prima di tutti gli altri nell’affaire Dreyfus è l’oggettivo e automatico funzionamento della macchina che stritola l’imputato. Man mano che si passa dal piccolo nucleo che ha ordito l’inganno ai livelli più elevati, sino a raggiungere i vertici dell’Armata, del Ministero della Guerra e infine del Governo, scattano quasi oggettivamente, per forza di inerzia, una serie di solidarietà di corpo, di meccanismi di identificazione ideologica, ed anche una serie di pigrizie (tornerò su questo punto: la pigrizia delle istituzioni) che alla fine concludono in una sorta di lettura blindata dei fatti e dei documenti dell’istruttoria.
Questo è il primo punto. Un altro, forse secondario, riguarda le mille trascuratezze quasi di routine che costellano l’indagine del 1894. Ne citerò due soltanto.
La perizia calligrafica sul Borderau che sembra inchiodare Dreyfus -la prima prova, e l’unica che venga esibita al processo- la compie il capo del servizio antropometrico della prefettura dl Parigi, Bertillon, come dire uno dei padri della polizia scientifica moderna, presso il quale -più o meno negli stessi anni- i poliziotti italiani, inviati da Crispi, vanno a imparare i nuovi metodi di indagine della Sureté. E la compie arrovellandosi a dimostrare che Dreyfus, per cautelarsi, ha scritto in modo che la sua stessa scrittura apparisse "imitata". Persino il presidente della Repubblica Casimir-Perier, raccontando in privato il suo incontro riservato con Bertillon, lo definirà: "Un fou, d’une folie abracadabrante et cabalistique", tanto bizzarri gli appariranno quei metodi di decifrazione calligrafica. Ciononostante la perizia ...[continua]

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