Pietro Marcenaro. Il libro affronta una questione cruciale oggi al centro sia della ricerca sociale che della discussione sindacale e politica: le trasformazioni del lavoro conseguenti alle grandi trasformazioni dell’economia, della produzione, delle tecnologie. Il punto di partenza è quella che viene definita, con un’espressione che ormai è quasi uno stereotipo, la “fine del fordismo”, la fine, cioè, di quel modello di produzione, di consumo e di organizzazione industriale caratterizzato dalla standardizzazione della produzione e dall’espansione di un consumo standardizzato; a quel modello corrispondevano caratteristiche del lavoro che sono state alla base dell’esperienza industriale, ma anche sociale e forse civile, della nostra società per molti decenni.
Il libro è un tentativo, attraverso un dialogo, di approfondire le caratteristiche del lavoro, come emergono da questa trasformazione. Naturalmente è una discussione molto aperta, in cui tanti sono i punti di domanda anche perché, appunto, si tratta di un processo di trasformazione di cui abbiamo conosciuto solo una parte. La tesi fondamentale, che dà poi il titolo al libro, verte sulla possibilità di reinterpretare quella che una volta si sarebbe definita la composizione sociale del lavoro a partire dalla nuova centralità della conoscenza, del sapere.
Il sapere diventa l’elemento che contraddistingue il nuovo ed è rispetto al sapere, al fatto di partecipare o essere esclusi dal sapere, che vengono definite le nuove condizioni delle persone, le loro opportunità come i loro rischi.
Ovviamente permane un’incertezza e una preoccupazione profonda su quali siano le tendenze che questa trasformazione produce e quindi le domande sono tante.
La prima che ci si pone è se si apra una fase nella quale effettivamente prevalgono le nuove possibilità, le nuove opportunità o se il sapere rischia di innalzare un muro, di definire le differenze fra le persone in modo ancora più rigido di quanto facesse in passato il reddito; una seconda domanda, più preoccupata, verte sul rapporto fra il lavoro e la solidarietà, tra il lavoro e il sindacato, tra il lavoro e la politica; in altre parole: sarà possibile partire dalla crisi delle vecchie appartenenze, delle vecchie certezze, per costruire nuove forme di aggregazione delle persone, un nuovo senso dell’azione collettiva?
Ecco, io vorrei provare a vedere alcuni aspetti che a me sembrano di un certo interesse. Il primo: con la fine del fordismo (naturalmente le espressioni andrebbero calibrate, non siamo di fronte a una fine, ma a una riduzione delle forme di lavoro che abbiamo tradizionalmente conosciuto) da un lato è evidente che per una parte di persone si apre una prospettiva positiva; queste trovano nell’elemento di autonomia e di libertà, di rottura dei tradizionali rapporti gerarchici che le nuove forme di organizzazione della produzione rendono possibile, uno spazio di affermazione di libertà molto importante. La possibilità di partecipare al sapere, di possederlo e di essere in grado di riprodurlo, può quindi supplire alla crisi delle forme tradizionali di sicurezza dell’impiego, costruendo altri percorsi personali che possono essere più ricchi e più importanti, più positivi. Bene, però a questa considerazione se ne accompagna un’altra: contrariamente a quanto molto spesso si pensa, la fine del fordismo non comporta affatto la fine, o una riduzione progressiva, del lavoro comune, cioè del lavoro dequalificato, povero, quel lavoro che faceva sì che un operaio potesse essere immesso in un ciclo produttivo e dopo poche ore o pochi giorni imparare a fare un lavoro anche senza nessuna formazione e qualificazione; anzi: mai come in questo periodo assistiamo a un’espansione di lavoro povero, di lavoro dequalificato, di lavoro comune. Moltissimo lavoro nei servizi ha queste caratteristiche. I sociologi hanno coniato il termine di “Mc jobs” per indicare il lavoro dei Mc Donalds, un lavoro poverissimo che non richiede nessuna qualificazione.
Ebbene, la nostra è stata una generazione nella quale abbiamo visto che gli operai co ...[continua]
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