Pubblichiamo gli interventi di Klas Svenaeus, psichiatra presso il Centro di riabilitazione per i sopravvissuti di guerra e delle torture di Göteborg; Hajo Funke, Freie University, Berlino; Rahel Bösch, Consiglio Svizzero per i rifugiati. Nel prossimo numero, gli interventi di Manfred Nowak, Camera per i Diritti Umani per la Bosnia Erzegovina, Austria; Irfanka Pasagic, psichiatra originaria di Srebrenica, oggi a Tuzla, e Jaque Grinberg, Capo Affari Civili della Missione delle Nazioni Unite in Bosnia Erzegovina (Unmbih).
Yael Danieli
Questo panel è inteso a fare il punto di un progetto multidimensionale finalizzato alla promozione di un dialogo all’interno e tra i vari gruppi che vivono in Bosnia, fuori o che vi stanno ora tornando dopo la guerra.
Faremo un percorso dall’esterno verso l’interno. Cioè partiremo da quei paesi che hanno fornito asilo, anche solo temporaneo, ai rifugiati che hanno lasciato l’ex Jugoslavia durante la guerra.
Cominciamo quindi con la Svezia. Lasciatemi dire che è stata proprio la città di Göteborg che mi ha portato in Bosnia Erzegovina (Bih) per cominciare questo progetto. Ero stata varie volte nella ex Jugoslavia negli anni precedenti lo scoppio della guerra, e anche in seguito, ma questo particolare progetto è stato intrapreso in collaborazione con Göteborg, che qui voglio menzionare assieme al governo svedese e alla città di Tuzla.
Klas Svenaeus, Göteborg.
Prima della guerra c’erano circa 5000 immigrati originari della Bosnia Erzegovina in Svezia. Bisognerebbe poi considerare questa cifra nell’ambito dei 34.000 immigrati dall’intera ex Jugoslavia. Questi erano stati richiamati per rinforzare il mercato del lavoro negli anni Sessanta e Settanta.
Dopo la guerra, circa 60.000 rifugiati sono arrivati dalla Bih, in un totale di 76.000 dalla ex Jugoslavia. Tra il 1993 e il 1996, a 57.000 rifugiati è stato concesso un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie; 8700 sono invece arrivati per riunirsi ad altri membri della famiglia già in Svezia e hanno ricevuto un permesso di residenza legato al ricongiungimento.
Quasi tutti quelli arrivati durante la guerra erano vittime di violenze organizzate. La maggior parte dei loro disagi psico-fisici va quindi visto in relazione al fatto che hanno sofferto situazioni spesso al limite della tollerabilità: pulizia etnica, torture crudeli e disumane.
L’80% dei rifugiati avevano già formato una famiglia, erano di mezza età e avevano un livello scolastico medio. A quel tempo in Svezia c’era un tasso di disoccupazione molto elevato, infatti nel 1996, il 92% dei rifugiati bosniaci era costituito da disoccupati, fattore che ha aggravato i problemi psicologici e sanitari di questo gruppo. Oggi fortunatamente la situazione è migliorata.
Sono stati subito avviati vari progetti tesi a migliorare la situazione di questi rifugiati, in particolare dal punto di vista psicologico e sociale. Il governo svedese ha messo a disposizione 50 milioni di corone per sostenere le organizzazioni locali impegnate a prendersi cura di questo gruppo di rifugiati di guerra.
Progetti di questo tipo sono stati promossi in tutto il paese, dovunque ci fossero dei rifugiati.
Fin dalle prime valutazioni sul lavoro svolto, è risultato evidente come il problema più grave, anche proprio dal punto di vista psicologico, per questo gruppo fosse la separazione delle famiglie.
Non posso ora presentare un’elaborazione epidemiologica generale, ma diversi studi locali hanno ampiamente dimostrano l’alto tasso di Ptsd (Post Traumatic Stress Disorder) tra questi rifugiati.
Del gruppo di 150 persone cui è stato concesso subito un permesso di soggiorno definitivo in Svezia, il 76% aveva subìto abusi fisici, il 17% era stato vittima di torture e l’89% aveva subìto torture psicologiche. Dei 65 rifugiati bosniaci stabilitisi nel nord della Svezia, l’82% ha ricevuto una diagnosi psichiatrica: al 45% è stato diagnosticato un disagio da Ptsd, al 39% una grave depressione (il 75% delle persone con diagnosi di Ptsd presentava livelli patologici).
Conosciamo tutti i disturbi correlati al Ptsd ...[continua]
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