Pietro Ichino
Ho apprezzato l’apertura al confronto con Paesi che circondano l’Italia e che sono più avanti di noi sul tema specifico della parità tra uomini e donne in un welfare moderno. Credo che noi abbiamo questo unico vantaggio derivante dall’essere un Paese arretrato: poter fare riferimento a paesi più avanzati come serbatoio di buone pratiche, di esperienze utili a cui dobbiamo attingere a piene mani. Sono fondamentalmente d’accordo sull’idea che alla parificazione si deve arrivare; non è un problema solo del settore pubblico, anzi, a leggere bene la sentenza della Corte di Giustizia Europea, si vede che il riferimento al settore pubblico è puramente contingente: è dovuto alla controversia specifica. La Corte infatti dice che il principio di parità va applicato proprio perché il settore pubblico non fa eccezione rispetto alla regola generale. Il principio di cui ci viene imposta l’applicazione riguarda pubblico e privato.
La sfida qui è riuscire a uscire da un equilibrio sbagliato, basato sul concetto di risarcimento: poiché ti ho penalizzato nella società e nell’arco della tua vita di mancato lavoro, ti concedo di poter anticipare di cinque anni l’età della pensione. E’ un circolo vizioso che bisogna disinnescare. C’è una questione di fondo che so che è ben presente alla mente delle tre autrici di questo progetto; però credo che vada attentamente valutato questo problema -e questo è il punto di domanda che io pongo loro-: esiste un trade-off, diciamo un bilanciamento necessario, di cui bisogna tener conto molto attentamente, tra tutela della specificità della condizione femminile e promozione del tasso di occupazione femminile?
Secondo me la protezione ha un effetto depressivo sull’occupazione. Mi dispiace dirlo, però è così e se noi non affrontiamo il problema, non lo risolviamo. Dobbiamo invece affrontarlo realisticamente e pragmaticamente, cioè senza pregiudizi ideologici: è necessario misurare gli effetti delle iniziative che adottiamo. Le scienze sociali oggi ci consentono di fare questo. Si può per esempio procedere in modo sperimentale: si adotta una misura e se ne valutano gli effetti e poi si procede a una generalizzazione (try and go) e a una estensione, oppure si cambia strada. Questo è un nodo cruciale. Io personalmente sono convinto, per esempio, che l’ampliamento del diritto al part-time, della possibilità di scegliere l’orario di lavoro, sia importantissimo; però non possiamo ignorare i problemi organizzativi che questo comporta per le imprese e di riflesso l’impatto che un eventuale diritto possa avere sulla propensione delle aziende ad assumere donne. Dopodiché, se individuiamo un effetto depressivo sull’occupazione, bisogna ragionare in termini di incentivi, bisogna porsi il problema della riduzione del costo del lavoro femminile in funzione del superamento di questa resistenza.
Penso che si debba rispolverare, riattualizzare la raccomandazione "Rocard”, approvata dal Parlamento Europeo nel ’96, che prevedeva un’imposizione contributiva differenziata a seconda della fascia oraria: per cui, in sostanza, a un’impresa costa di più la fascia che va dalla 33esima alla 40esima ora e meno quella dalla 24esima alla 32esima. La conseguenza di questa ristrutturazione della contribuzione previdenziale fa sì che resti invariato il costo del lavoro sulle quaranta ore, ma che ci sia un fortissimo incentivo a collocare l’orario nella zona dello short-full time, tra le 24 e le 32 ore. Questo potrebbe favorire nuovi insediamenti produttivi di servizi nella fascia intorno alle trenta ore piuttosto che nelle quaranta, creando un’offerta (tecnicamente una domanda) di lavoro part-time da parte delle aziende superiore a quella che c’è oggi.
D’altra parte, io vedo l’esperienza del mio studio professionale (quello di cui sono contitolare con altri avvocati) dove abbiamo praticato una politica della massima apertura al part-time col risultato di ritrovarci con un forte sovrad ...[continua]
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