L’idea di cultura è per molti operai associata alla scansia dei libri ed alle carte ingombranti i tavolini, agli studi regolari ed ai titoli accademici, sì che nasce in essi la convinzione che quella degli intellettuali sia una specie particolare e che la cultura sia vietata a coloro che non possono sedere per anni sui banchi di scuola o passare delle mezze giornate in biblioteca. Mentre, in linea generale, gli intellettuali, levati dal campo delle conoscenze ed esperienze professionali o degli studi particolari, non sono al di sopra degli operai intelligenti. Anzi, manca in molti di essi quella conoscenza della vita, quel senso pratico, che si riscontrano nella maggioranza dei lavoratori manuali.
Questo perché la cultura non è tanto ricchezza di cognizioni quanto sistemazione di esse e capacità di osservazione, di riflessione, di critica. La cultura non è soltanto lettura e studio, ma anche filosofia. E ognuno può essere filosofo, quando osservi e mediti le cose, gli avvenimenti, gli uomini, se stesso.
Il mondo borghese, col monopolio dell’istruzione media e superiore, con la produzione libraria ad alto prezzo ed aristocratica o banale, con la stampa accademica o pettegola e falsa, non cerca di elevare gli operai mediante la cultura professionale. L’unica cultura popolare extra-scolastica che concede è quella delle Università Popolari, che, dominate dall’illuminismo, non sono, in generale, che enciclopediche e farragginose accademie, nelle quali la vanità presuntuosa spiffera la propria erudizione più o meno ampia e digerita. Questo stato di cose oltre che conservare alla borghesia, grande e piccola, il privilegio dell’istruzione, impedisce la formazione della cultura professionale, trascinando per giunta gli operai per una via falsa: quella dell’enciclopedismo dei manualetti Sonzogno.
A fuorviare gli operai appassionati alle letture e alle conferenze contribuisce però anche l’avversione che è in molti di loro per il proprio lavoro. Il lavoro è per moltissimi operai una noia; qualcosa di estraneo, di penoso. Questo spiega il fatto che in molte Università Popolari i corsi di tecnologia sono meno frequentati di quelli di istruzione generale, e che sia più frequente trovare nelle case operaie libri di politica, romanzi, magari opere filosofiche, che trovare manuali tecnologici.
Anche nel nostro campo la cultura professionale è trascurata. Molti «intellettuali» non possono scriverne perché non se ne intendono, e gli operai ed i tecnici non amano trattarne. Così il problema dell’apprentissage è trascurato nei sindacati e nei circoli, nella propaganda orale e scritta. Il fatto è spiegabile, ma non per questo è meno da deprecarsi. È spiegabile perché se l’imparare bene il proprio mestiere era sentito come una necessità dall’artigiano che dalle maggiori capacità professionali traeva un prossimo e diretto vantaggio, non può generalmente esser sentito oggi che la specializzazione e lo sfruttamento del lavoro rendono l’officina estranea all’operaio.
Il valore che aveva l’abilità professionale nel compagnonage o nella corporazione medioevale non lo può avere nel sindacato odierno, che è organo di lotta più che di produzione. Ma lo può avere nelle cooperative, in generale, là dove ci sono operai che hanno coscienza della forza di elevazione che ha il lavoro perfezionato. La formula «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori» ha, anche sotto quell’aspetto, significato di metodo e valore morale.
Lo sviluppo del capitalismo, se porta con sé lo sviluppo del tecnicismo ultra-specializzato, tende a distruggere l’operaio completo, il mastro di bottega. Il lungo tirocinio degli apprendisti è sempre meno necessario, poiché l’operaio è sempre più «appendice della macchina».
Di questo asservimento dell’operaio alla macchina si resero subito conto i socialisti della prima Internazionale, ed il Varlin, l’intelligente legatore di libri caduto eroicamente durante la Comune, non si stancava di raccomandare ai propri compagni di lavoro ...[continua]
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