Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona e all’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Verona.
La mia relazione verterà sui cambiamenti introdotti dal d.lgs. n. 23/2015 nel sistema di tutela per i licenziamenti economici e disciplinari.
Prima di entrare nel merito è opportuno fare almeno tre considerazioni di carattere preliminare.
La prima è che il recente intervento sull’art. 18 è solo una faccia della medaglia. Se si vuole avere una visione completa occorre tenere presente l’allargamento dell’area di applicazione della indennità di disoccupazione (Naspi), le restrizioni all’utilizzo delle collaborazioni autonome (con l’abrogazione del lavoro a progetto) e la programmata riforma dei servizi per l’impiego con l’obiettivo di rendere più semplice e rapida la ricerca di un nuovo posto di lavoro. La scommessa, che per l’intanto rimane tale, è quella di rendere centrale il ricorso al lavoro a tempo indeterminato. È dunque presto per dare un giudizio a tutto tondo e occorrerà attendere che la riforma spieghi i suoi effetti.
La seconda considerazione è che non credo e non ho mai creduto che una modifica dell’art. 18 potesse generare un aumento di occupazione. L’art. 18 non rappresentava la causa del basso livello di occupazione in Italia, ma costituiva una (anche se non l’unica) delle ragioni che generavano una cattiva occupazione. A torto o a ragione, molti datori di lavoro preferivano infatti sempre, per non superare la soglia dei quindici occupati, ricorrere allo straordinario o ad altre forme di contratto di lavoro, come il contratto di lavoro a progetto o il contratto a termine, anche se non ne ricorrevano sempre le condizioni di legittimità.
L’ultima considerazione è che l’art. 18, e dunque la reintegrazione, non è una norma che gode di una protezione costituzionale. Nemmeno l’Unione Europea ne parla; si fa menzione piuttosto di un altro principio, che ha una certa rilevanza: si prevede infatti, all’art. 30 della Carta di Nizza, una tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Ma, attenzione, non una tutela quale che sia, bensì una tutela che abbia una effettiva efficacia dissuasiva. E questo potrebbe rappresentare un possibile elemento di criticità del nuovo intervento legislativo.
Fatte queste premesse, le cose da dire sarebbero moltissime. Mi limiterò quindi ad alcuni flash.
Il nuovo decreto è entrato in vigore il 7 marzo di quest’anno e vale dunque solo per gli assunti dopo questa data. Esso quindi inevitabilmente comporta un regime binario all’interno della stessa impresa. E ci si deve allora chiedere se questo regime abbia una sua coerenza dal punto di vista costituzionale, vale a dire se sia ragionevole che ci sia una tutela diversificata a seconda che il lavoratore sia stato assunto il 6 o l’8 di marzo.
Naturalmente è impossibile fare una previsione su quale sarà l’opinione della Corte costituzionale; mi limito qui a ricordare una sentenza molto recente della Corte costituzionale, la 254 del 2014, in materia di responsabilità solidale in caso di appalti, secondo la quale è "razionale che la medesima fattispecie giuridica sia assoggettata a regimi diversi in ragione della diversità del tempo, dal momento che il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”.
È una sentenza che è stata resa non più tardi di qualche mese fa, a novembre 2014, e che sembrerebbe indurre a ritenere -nell’ovvio rispetto dell’autonomia della Corte Costituzionale- come la diversificazione di tutele in ragione del tempo dell’assunzione potrebbe non giocare un ruolo nella valutazione della Corte costituzionale.
Insomma, non c’è da stracciarsi le vesti per una diversificazione delle tutele in ragione del tempo.
È evidente che quando si introduce una nuova disciplina c’è sempre un momento di compresenza. D’altra parte per anni si è convissuto con una diversificazione di tutele particolarmente rilevante tra imprese che avevano 14 dipendenti e imprese che ne avevano 16.
...[continua]
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