la settimana scorsa ho fatto qualcosa che non mi era mai venuto in mente prima: sono andata con il mio vicino di casa a Shenzhen, ripercorrendo le vicende che hanno portato alla sua partenza dalla Cina.
Si chiama Leo Hoang, è nato a Shanghai, e dopo essere venuto a Hong Kong è diventato musicista nella filarmonica locale. È una delle innumerevoli persone arrivate a Hong Kong in fuga dalle difficoltà politiche che soffocavano la Cina negli anni Settanta. Di persone come lui, nate in Cina e naturalizzate hongkonghesi, ce ne sono molte: parlano senza troppe difficoltà del loro periodo cinese, ma si identificano con questa ex-colonia britannica molto più di quanto non facciano con il resto della Cina.
La questione identitaria è fin troppo complessa, quindi per ora la lascio da parte. Vi voglio invece raccontare la sua storia, così come me l’ha raccontata lui, portandovi a Shenzhen.
"Mio padre era un chimico, di una famiglia cinese emigrata anni addietro in Thailandia -mi ha raccontato- Era andato a specializzarsi in Germania, dopodiché era tornato in Thailandia. Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la vittoria comunista, pieno di speranze aveva deciso di rispondere all’appello di Mao rivolto a tutti i cinesi con un alto livello di istruzione affinché tornassero in Cina per servire il Paese e il popolo, secondo l’espressione corrente”.
A quell’appello risposero in decine di migliaia, ma dopo pochi anni ebbero tutti a pentirsi della loro decisione: le campagne politiche diventarono ben presto xenofobe e, nell’ansia di trovare ovunque spie e boicottatori assoldati dagli imperialisti, e anche per liberarsi di colleghi scomodi in quanto meglio preparati, gli "esperti” con titoli di studio stranieri vennero presi di mira in modo violentissimo.
Dopo alcune difficoltà al lavoro, ecco dunque che il padre del mio vicino di casa decise che era arrivato il momento di togliersi di torno, prima che si scatenasse la tempesta su di lui e sulla sua famiglia. Così, approfittando di un viaggio di lavoro per il quale era riuscito a ottenere il permesso, decise di non rientrare in Cina e di restare a Hong Kong.
Farlo sapere alla moglie e ai figli era troppo pericoloso, per cui li contattò solo una volta arrivato, dicendo loro di fare il possibile per raggiungerlo.
Seguirono dodici anni di tentativi, in cui furono costretti a bussare a tante porte e a subire soprusi di varia natura, fino alla perdita della ragione da parte della mamma, che cadde in una grave depressione.
Leo non mi ha detto se suo padre si sia mai pentito della fuga -una parte della storia è un po’ confusa. Mi ha raccontato che c'è stato un momento decisivo in cui lui, in quanto figlio primogenito (e quindi con la responsabilità dell’intera famiglia), ormai ventenne decise di andare a bussare a una porta molto importante a Pechino, ma qui non mi ha fornito dettagli. Sta di fatto che da allora le cose cominciarono a muoversi e alla fine sia lui che le sue sorelle, come pure la mamma ancora malata riuscirono a ottenere il permesso di andare a Hong Kong e riunirsi al padre.
"Lasciammo tutto a vicini e amici. Convinti di dover trascorrere in Cina solo il tempo necessario per arrivare a Canton e poi a Shenzhen e da lì attraversare la frontiera, prendemmo giusto un paio di cambi di biancheria e partimmo. All’epoca non era possibile esportare nemmeno un Rmb, la valuta cinese, per cui prendemmo giusto il necessario. Tutto il resto lo distribuimmo nella gioia del nostro nuovo permesso”, mi ha raccontato, per poi ridere forte ma amaramente davanti alla sua ingenuità. "Non immaginavamo che sarebbe stato tutt'altro che facile: arrivati a Shenzhen, ci mettemmo a correre felici verso la frontiera, per farci respingere dai soldati senza una parola, con il mitra che si muoveva verso di noi. Una signora gentile, lì vicino, ci spiegò che c’era una quota giornaliera di settanta persone che potevano attraversare la frontiera e che dovevamo attendere che il nostro nome finisse sulla lista. Dovevamo andare in una vecchia scuola, ad alcuni chilometri da lì, ad aspettare. C’era una lavagna dove veniva scritto il nome di chi poteva partire: se il proprio non c'era non restava che aspettare fino al giorno dopo, quando ci si alzava di nuovo all’alba per andare a leggere i nomi sulla lavagna. Aspettammo due settimane. Uno zio era stato mandato da mio padre con l’equivalente di venti euro, che ci bastò per mangiare e comprare degli spazzolini.
Il giorno in cui ...[continua]
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