Il fascino dei racconti di vita, quando conservano le movenze della parola, gli scatti della voce, le emozioni del narratore o della narratrice, è che non si vorrebbe mai che finissero. Come capita da bambini, viene da dire "ancora!”, per allontanare il silenzio e l’ombra di morte che si porta dietro.
Le storie di donne raccolte attraverso interviste dalla redazione di "Una città”, pur muovendosi tra luoghi, tempi, esperienze tra loro molto diverse, arrivano all’ascolto come un lungo ininterrotto monologare, accompagnato con sapienza e massima discrezione dalle domande di un interlocutore.
Per quanto trascritta, la voce narrante non conosce l’asperità della carta, gli indugi del pensiero sulla pagina bianca, le incursioni imprevedibili di ciò che sembrava dimenticato per sempre.
Procede spedita, seduttrice e sedotta per la presenza dell’altro, muovendosi con la libertà che si ha nella confidenza intima e con l’esuberanza richiesta da una esposizione pubblica.
Non so che cosa mi ha attratta di più, se l’aprirsi di uno spazio insolitamente ampio e variegato per chi ha dovuto così a lungo perimetrare il mondo con le pareti di casa, o il convergere di vite diverse, accostate senza una finalità precisa, verso una comune umanità femminile, precipitato di un rapporto tra i sessi divenuto forzatamente "natura”. Sono quasi sempre madri, figlie, sorelle, mogli, interni di famiglia, relazioni parentali, appartenenze intime, su cui eventi traumatici -la guerra, un colpo di Stato, un atto terroristico, una malattia, una morte- hanno aperto uno squarcio doloroso, la linea di demarcazione tra un prima e un dopo, ma anche l’inizio di un viaggio che sembrava destinato ad altri: l’impegno sociale, lo studio, il piacere di raccontare per sé e per molti ciò che resta ancora irrimediabilmente privato e "impresentabile” di ogni singola vita.
Certi vecchi dicono che sono le guerre a rovinare le donne, forse è vero. E man mano che le donne si emancipano, gli uomini perdono un bel po’ di servitù, perdono carisma, non riescono a comandare come prima. Certo sono rapporti di forza: il terreno che guadagniamo noi lo perdete voi. (Olga)
Ora mi sembra di poter dividere la mia vita in un prima e un dopo. Sono uscita da quell’esperienza molto diversa. Ero la madre, la casalinga professionista che aveva sì degli amici, però i grandi problemi li guardava con distacco dallo schermo, dal giornale. Invece adesso non aspetto, voglio capirli e mi fido molto di più di me per cercare di capirli… L’Aids era una grande occasione per incidere positivamente in questa società. (Ulla Barzaghi)
C’era qualcosa che assomigliava alla giocosità. Certo, si vivevano drammi e profonde tristezze, c’era tanta gente che ti moriva intorno, ma ci si abitua presto all’eccezionalità, alla precarietà della vita, altrimenti non si potrebbe sopravvivere. C’era soprattutto una grande pulsione di vita, era come se si dovesse vivere con una intensità moltiplicata, anche per quelli che erano scomparsi… Ma c’erano anche momenti elettrizzanti di estrema felicità, quando riuscivi a realizzare delle cose o toccavi con mano la solidarietà, a volte anche da parte di sconosciuti. (Lisa Foa)
Persino il carcere o la cella in cui si torna dopo aver subito la tortura di un regime barbaro possono trasformarsi, prospettare nuove vie di salvezza o di rinnovamento, come quei pertugi nei fortilizi che lasciano intravedere il mare:
Essere arrestata per me è stato come essere scaraventata all’improvviso nel mondo di quelli con cui mi ero sempre schierata… il tempo lungo, senza impegni, per un certo verso orribile, ti permette di avere un rapporto con te stessa, di pensare, di meditare. Lì ho acquistato una libertà di pensiero che fuori non avevo… Ho ricevuto da altri detenuti lettere stupende, tanto che ho pensato che alcuni avessero scoperto qualità di scrittura che fuori non conoscevano… Sono finita dentro per disgrazia e devo dire che la cosa non mi è mai dispiaciuta. (Giuliana Ciani)
è paradossale, ma ho un bel ricordo di quella cella. Certo era un luogo orribile, freddo, stretto, con una rete nuda, una lampadina che pendeva e poi forse una finestrella, un buco con delle sbarre. Però quella finestra era importante perché io durante il giorno inseguivo il quadratino di sole che entrava per prendere un po’ di calore. E poi era il luogo in cui mi ricomponevo quando tornavo dalla tortura. (Gina Gatti)
La "catastrofe” che scompiglia legami, che oscura certezze, abitudini, affetti scontati, nel momento in cui sposta confini tradizionali tra privato e pubblico, famiglia e società, costringe a ripensare i poli di una dualità astratta, il potere arbitrario con cui il protagonista unico della storia, il sesso maschile, ha distribuito le parti, escludendo la donna dalla vita pubblica, consegnando alla immobilità della natura vicende essenziali della storia umana, come la nascita, l’amore, l’invecchiamento, la morte.
A riportare le "passioni del corpo” dentro i tracciati della civiltà, della cultura, della politica, da cui peraltro non sono mai state disgiunte, non potevano che essere voci di donne, pensieri, sentimenti, ferite profonde che scoprono con sorpresa di potersi fare racconto, parola pubblica, occasione per una socialità imprevista. è questo scarto, questa dislocazione improvvisa, che porta le donne su strade destinate ad altri, a disegnare una linea comune tra vite diverse, contesti sociali, culturali, geografici tra loro lontani: dalla guerra di resistenza contro regimi dittatoriali, alla lotta quotidiana, sfibrante, a cui è chiamata la madre di una "bambina disabile”, vincolata al "connubio fortissimo” che la fa responsabile prima, e spesso unica, della vita di un altro essere.
Ti devi inventare tutti i ruoli, di segretaria, di infermiera, terapista, in parte medico… Alla fine a reggere la situazione sei tu sola, tu sei là a Pasqua, a Natale, al compleanno tuo, a quello suo, è un connubio fortissimo; il mio destino è legato strettissimamente a lei… alla fine sei sempre tu che non puoi mancare, mai ammalarti, mai avere una fantasia o una voglia per la testa. (Claudia Marzocchi)
A scoperchiare case, sconvolgere ruoli famigliari, non sono soltanto bombe, sequestri, leggi razziali, esili forzati, ma vicende che la sfera pubblica, la grande Storia ha lasciato nell’insignificanza, nell’accidentalità del vissuto particolare di ogni individuo, esperienze comuni, essenziali dell’umano che, paradossalmente, ognuno vive in solitudine con paura e vergogna.
La scoperta di avere un figlio omosessuale e sieropositivo, il disagio psichico che costringe a un temporaneo ricovero, la terapia violenta per guarire da un tumore, sono i passaggi stretti che possono spegnere le forze di una donna, o diventare, al contrario, l’antecedente da cui ripensare la società, i suoi poteri, le sue istituzioni, i suoi linguaggi. Guardate dalla nuova sponda, raggiunta con fatica e a rischio di morte, le contrade più diverse del mondo -dal maso tirolese alle lande ventose della Patagonia- cambiano fisionomia, i rapporti tra gli uomini e le donne, divenuti per la loro fissità una "evidenza invisibile”, balzano agli occhi con l’immediatezza di una forma, di un colore, di sentimenti contraddittori finalmente riconosciuti.
In Algeria, come in qualsiasi parte del mondo, l’uomo nasce con l’idea che è lui il padrone, ma quando è disoccupato e senza istruzione perde completamente il senso della propria identità, del proprio potere. Con­tinuerà a comandare ma si sentirà malsicuro di fronte alle donne che hanno sempre qualcosa da fare… le donne algerine hanno una certa coscienza del proprio valore perché sono loro che tengono insieme la famiglia e si occupano di tutto. (Magda Taroni)
Era una società maschilista… gli uomini facevano lavori di manutenzione, ma poi andavano dietro la stufa a riposarsi… le donne invece d’inverno lavoravano in casa, dovevano filare, fare le calze, rammendare, fare i vestiti per tutti… la mortalità delle donne era altissima, se era fertile e normale nasceva un figlio all’anno… la perdita di una mucca era più grave, perché quelli erano soldi investiti. (Elisabeth Seebacher)
In Patagonia per un po’ di mesi… A quell’età hai anche un rifiuto verso altre culture… ti senti l’unica sana di mente in un mondo di matti… Lavorano solo le donne e tu dici: ma perché gli uomini non devono lavorare? Poi ci sono le cose che le donne non devono fare, tipo le feste: gli uomini si riuniscono nella valle per il solstizio, ballano e bevono per tre giorni e guai se le donne si fanno vedere. (Laura Pariani)
A parte qualche rapido accenno al ’68, manca, in questa lunga sequenza di storie di donne, un riferimento esplicito alla "rivoluzione” che il femminismo degli anni 70 ha prodotto sulle coscienze di uomini e donne, sui legami famigliari, sul modo di vivere il corpo, la sessualità, la maternità, il rapporto col simile e col diverso, con la casa e la città. L’individualità femminile, cancellata dall’immaginario e dal potere patriarcale che ha ridotto le donne a funzione sessuale e procreativa, corpo destinato a prendersi cura di altri corpi, si fa strada a fatica, sanando ferite in solitudine o con l’aiuto di figure parentali, scopre l’amicizia con stupore, si rallegra ogni volta che può trasformare la sofferenza in occasione di crescita e di rinnovamento vitale.
Morte e vita, dolore e gioia, distruzione e conservazione, si rincorrono e si mescolano come fossero passaggi indispensabili per poter rinascere. Nessuna schiavitù ha fatto soltanto vittime, tanto meno quella che ha visto gli uomini riservare a se stessi ogni potere decisionale, ogni creazione dell’intelletto, ogni sapere, ogni linguaggio, lasciando alle donne la potenza di metterli al mondo e di crescerli. Di quanto tempo, fatica, saperi, sia fatto il lavoro delle donne all’interno di una casa, di una comunità, dicono quasi tutti i racconti, ma non è un caso che queste "storie non registrate”, questi "oggetti seppelliti”, di cui Virginia Woolf si rammaricava di non rinvenire traccia nei libri di storia, vengono allo scoperto soprattutto quando ci si allontana dalla nostra civiltà, dall’idea che l’emancipazione abbia cambiato ruoli e disparità di potere tra uomini e donne.
Se è l’ingiustizia sociale a balzare agli occhi per prima, a spingere all’impegno volontario e solidaristico verso gruppi sociali e popoli impoveriti dal privilegio dell’Occidente, altrettanto lucida è la denuncia di un dominio maschile che si è confuso con l’amore, che ha riprodotto nella vita sociale, nelle sue istituzioni, violenze, pregiudizi, gerarchie del tutto analoghe a quelle date come naturali nella famiglia. Non so se l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, la ripetitività delle occupazioni legate al corpo, ai rapporti affettivi, alle responsabilità domestiche, abbia sedimentato nei secoli un sapere femminile diretto, specifico su tutto ciò che la storia, la cultura, la politica si sono lasciate a lato, o hanno del tutto rimosso. Certamente, come si deduce da queste preziosissime storie, rese con la sincerità di chi sa di essere ascoltato con amore e interesse, la collocazione delle donne "alle radici dell’umano” ha fatto sì che, nel momento in cui hanno potuto uscire da un destino di genere, dai ruoli obbligati di madri, figlie, sorelle, potessero dire dell’individuo, della sua interezza come "corpo pensante”, quella che è rimasta per secoli la preistoria inesplorata di tutte le civiltà, il "mare ribollente delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire”. La "rivelazione di sé a se stessi”, di cui parla Alberto Asor Rosa nel suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), non poteva che cominciare da quella "memoria del corpo”, che è stata per le donne ragione prima della loro insignificanza storica e della loro esaltazione immaginativa.