Lo scorso maggio a Torino, presso la sede del Gruppo Abele, si è tenuto un seminario dal titolo “La città fa l’educazione, l’educazione fa la città”. Riportiamo gli interventi di Oscar Henao Mejia, Rector de la Institucíon Educativa Benjamín Herrera de Medellin (Colombia), Antonio Presti, Presidente fondazione Fiumara Arte, Catania, Joseph Rossetto, preside del College Pierre Sémard di Bobigny (Francia), Denise Calabresi, accompagnatrice sociale di adolescenti di strada, Bologna e Cesare Moreno, del progetto Chance-Maestri di strada, Napoli.

Oscar Henao Mejia, Medellin, Colombia
Sono onorato di essere qui, tra persone che danno un alto valore all’educazione e di poter condividere con voi la mia esperienza, ormai ventennale, di direttore di un una scuola di Medellin sita in un luogo molto particolare, ad elevata conflittualità.
Voglio ricordare due eventi che hanno segnato la storia del quartiere e dell’istituto.
Nel 1954 il sindaco ordinò per decreto che il quartiere dove è sorta la scuola, il Barrio Antiochia, venisse deputato a “sede” della prostituzione della città. Così tutte le donne che lavoravano come prostitute vennero caricate su camionette e portate lì. Dopodiché si pensò bene di circondare l’area con un muro. Il quartiere allora era perlopiù abitato da contadini venuti in città a cercare qualche opportunità di lavoro.
Il Collegio, che è intitolato a Benjamín Herrera, è stato voluto e ottenuto grazie alle rivendicazioni della popolazione locale che voleva riscattarsi dall’idea che quello fosse un luogo di prostituzione facendone invece un luogo di studio.
Il secondo evento che voglio ricordare risale agli anni 1982-85 quando a Medellin è iniziato a emergere il fenomeno del narcotraffico. Sicuramente conoscete il famigerato Pablo Escobar.
L’istituto è situato esattamente dove termina la pista di atterraggio di quello che all’epoca era l’unico aeroporto di Medellin. Insomma il luogo ideale per scambiare droga con dollari. I giovani che frequentavano la scuola caddero presto nella trappola di questa cultura che si nutriva dell’illusione del guadagno facile legato al traffico di droga. In questa fase ci furono un tale sbandamento e degenerazione culturale che l’unico valore era diventato il dollaro, il denaro. Nell’istituto, poi, c’erano giovani che appartenevano a bande in conflitto tra loro. Questi ragazzi erano disposti ad uccidere per poche banconote e poi c’erano tremendi riti di iniziazione: il capo poteva chiedere di uccidere il proprio amico come “prova” della capacità di assassinare, di essere dei buoni sicari.
Io sono diventato preside nel 1991, all’inizio del periodo più duro (1991-93), quando mediamente ogni anno venivano assassinati otto ragazzi tra quelli che frequentavano la scuola e altri otto tra quanti l’avevano lasciata. Sedici ragazzi ammazzati ogni anno. Nel quartiere il parroco in quei tre anni celebrò 183 funerali di ragazzi.
All’inizio quando ammazzavano uno dei nostri studenti alzavamo la bandiera, alla fine decidemmo di lasciarla alzata permanentemente.
Cos’abbiamo fatto per affrontare questa situazione, io e i miei collaboratori? Diverse cose. Devo anche dire che per me è stata decisiva l’esperienza di Lorenzo Milani nella scuola di Barbiana.
Parlando con uno dei ragazzi implicato nel traffico di droga ho presto capito che una delle cose che pativa di più era la solitudine, il non poter comunicare con nessuno. Questi giovani erano ormai autistici, sempre più l’unico linguaggio che conoscevano era quello delle armi.
A quel punto ho fatto una cosa per cui ho rischiato anche di perdere il posto. Ho preso sei docenti dell’istituto di diverse discipline, di matematica, spagnolo, inglese, geografia, che condividevano una capacità che non tutti gli insegnanti hanno, quella di saper comunicare coi loro ragazzi, ed ho detto loro: “Da domani voi non insegnate più le vostre materie. Il vostro compito da ora è quello di essere disponibili a parlare coi ragazzi”.
Bisognava creare nuovi canali di comunicazione, ma anche nuovi luoghi, assumeva importanza lo spazio cosiddetto di ricreazione in cui si poteva parlare. Abbiamo capito che il cuore del nostro progetto formativo era la comunicazione. Tutto il resto ruotava attorno a questo.
Per sviluppare queste capacità abbiamo usato diverse chiavi: la musica, la danza, il teatro, e soprattutto la letteratura e la scrittura.
Da allora i nostri ragazzi non hanno mai smesso di scrivere. Hanno pubblicato dieci libri. L’ultimo è intitolato “Parole di amore e qualcosa in più”.
La cosa straordinaria è che questi ragazzi che davvero non avevano le parole per dirlo, che vivevano il conflitto, il cui unico valore era il dollaro, sono infine riusciti ad esprimere se stessi. Con grande soddisfazione.
Ora, quando andiamo dai ragazzi che vivono in strada e gli diciamo che è importante andare a scuola non dobbiamo pensare che l’unica cosa importante sia frequentare le lezioni. In questi anni ho imparato che il luogo dove meno si apprende rischiano di essere proprio le aule scolastiche. E’ invece nella comunicazione che si impara. La scuola poi li deve aiutare a liberarsi di tutti gli ostacoli creati dal loro contesto che non permettono loro di svilupparsi, di crescere.
La relazione docente-discente resta il cuore di tutto, ma dev’essere una relazione di accompagnamento, e deve funzionare in entrambe le direzioni. In inglese si usa l’espressione coaching, ecco, mi sembra una bella immagine quella dell’allenatore.

Antonio Presti, Catania
Io vengo dalla Sicilia. Nella provincia di Messina, fra Cefalù e Santo Stefano di Camastra, ho realizzato un grande museo all’aperto di scultura monumentale che si chiama Fiumara d’arte. Sono otto opere realizzate da grandi artisti. Ho iniziato questo percorso che avevo 25 anni, ora ne ho 50. L’idea era di donare a questa zona della Sicilia, che è un po’ fuori dai circuiti, questa dimensione della bellezza, attraverso il valore dell’arte, della scultura. Ho voluto così elaborare un nuovo concetto di museo d’arte contemporanea. In un vecchio albergo ho voluto realizzare delle “stanze d’autore” dove è possibile fruire l’arte dentro la vita. Attraverso questi due percorsi, uno di scultura all’aperto e uno di arte vissuta, abbiamo fatto di “Fiumara d’arte” un luogo di eccellenza, ma soprattutto di impegno civile. In una società in cui tutto è costruito sul possesso, il dono è l’atto più eversivo che possiamo fare.
Mi sono successivamente trasferito a Catania e lì ho scelto di lavorare nel quartiere di Librino. Tutti me ne parlavano male… Librino è figlio dell’idea di “città satellite”: a Catania c’è Librino, a Palermo lo Zen, a Napoli Scampia. Questo quartiere si trova a quattro chilometri da Catania, è situato proprio di fronte all’aeroporto di Fontanarossa, quindi ha una centralità ri­spetto alla fruizione dell’aeroporto, ma un’emarginazione rispetto alla città.
Librino è un po’ la rappresentazione della nostra periferia contemporanea. Tutto ruota attorno alla dimensione del malessere; il quartiere è “a rischio”, i bambini vanno “recuperati”, la politica prima crea scientemente questi “non-luoghi”, che sono tutti uguali, e poi si inventa il recupero. Ci sono 100.000 persone assoggettate a uno stato di necessità; siamo alla terza generazione che cresce venendo educata a chiedere. Non ci sono servizi, mancano presidi essenziali: a Librino c’è soltanto una stanza come presidio di polizia e l’unica pattuglia d’ufficio viene mandata all’aeroporto. Sembra esserci una volontà di Stato a consegnare questi luoghi al cosiddetto malaffare: spaccio di droga, armi (con la mafia), prostituzione. La politica sociale è tutta incentrata sul recupero.
Io ho scelto di partire dalle nuove generazioni e quindi dalla scuola. A Librino ci sono dieci scuole per 100.000 abitanti. Mi sono presentato con un progetto didattico. Premetto anche che io faccio un’azione privata senza finanziamenti pubblici. Volevo offrire a questi ragazzi dei progetti che parlano della bellezza e del rispetto che li coinvolgessero non a partire dalla conoscenza, ma dall’emozione. Qui il bambino lo prendi solo contattandolo emozionalmente, con la relazione; la cultura viene di conseguenza.
A Librino abbiamo portato i grandi poeti nazionali, i più grandi scrittori internazionali. Librino sta diventando un laboratorio.
Tre anni fa i bambini hanno realizzato 500 spot pubblicitari che poi sono andati in tutte le tv locali della Sicilia; per due anni, in tutti i tg locali sono andati questi spot in cui i bambini di Librino non chiedevano aiuto, chiedevano soltanto rispetto. Dicevano: “Librino è bello”, “Io amo Librino”, eccetera. Così Librino è diventato famoso in tutta la Sicilia.

A settembre inaugureremo un’opera monumentale. Vogliamo fare di Librino uno dei più grandi musei internazionali della fotografia, del video. L’idea è di sfruttare tutte le facciate cieche dei palazzoni… Ci sono cento palazzi nel quartiere.
Abbiamo già avuto le autorizzazioni e ora voglio installare delle gigantografie e delle proiezioni della bellezza spirituale degli abitanti dei vari condominii.
Penso a un vero mantra collettivo, a un rito di bellezza, dove ogni giorno in questi monoblocchi da 500 famiglie queste persone tornando a casa da un lavoro duro si vedano bellissimi. Il compito che voglio dare agli artisti è proprio quello di cogliere la bellezza di questi condòmini… cosicché nessun ragazzo debba pensare: “Sono guappo, sono a rischio”, bensì: “Sono bello”. E quando 100.000 persone, ogni giorno, mattina, pomeriggio e sera, guardandosi, riconoscendosi, affermano: “Io sono bello”, ecco questo dà diritto alla cittadinanza.
So di essere provocatorio. Ma per me non è essere cittadini dover chiedere la fogna, il posto di lavoro, il banco alimentare… Questa storia del banco alimentare poi è assolutamente vergognosa, cioè che si debba dare il mangiare gratis in base a graduatorie dove entra subito la camorra…
Certo, non è facile proporre la bellezza così… perché la signora di Librino ti risponde subito che con la bellezza non si mangia. Però io credo che si possa passare anche di qui. Noi d’altra parte siamo artisti…
Il percorso che voglio fare a Librino è emozionale, e su questo stiamo lavorando coi bambini, però ha anche un valore politico, perché la cultura, come la intendiamo noi, ha il dovere di elevare il voto a libertà. Lo Stato ha creato le periferie per sottomettere 100.000 voti a stato di necessità… Diciamolo chiaramente, le periferie non sono luoghi a rischio, sono luoghi creati, mantenuti, alimentati e sostenuti dallo Stato, dalla politica di destra e di sinistra… A Librino ho visto sindaci di destra e di sinistra andare a comprare voti a 30 euro, sotto forma di scheda telefonica, di patronato o di banco alimentare.
Ecco, noi vogliamo che i bambini di Librino crescendo possano votare in uno stato di democrazia, quindi in libertà. Ma questa libertà gliela dà soltanto la cultura, non gliela dà né la fogna, né il posto di lavoro perché queste operazioni rischiano soltanto di ribadire lo stato di sottomissione…
In fondo uno appena esce dall’aeroporto vede il bivio Librino-Catania, basterebbe qualche insegna in più per lanciare il museo di Librino, un po’ di battage pubblicitario, anche a livello internazionale, perché no?
La cultura ha un valore politico anche nel ridare centralità a luoghi emarginati. Dopo otto anni di lavoro credo si possa creare un processo concreto volto non a “recuperare” la periferia, bensì a ribaltarla. Anche grazie all’aeroporto, Librino può avere un indotto turistico e culturale.
Mi hanno mandato messaggi mafiosi: stia attento, se lei mette queste gigantografie, se fate il museo, la mafia le brucerà tutto…
Siccome già un po’ d’esperienza con la mafia l’ho avuta, ho detto: “Non c’è problema”. Mi sono presentato al carcere di Catania e ho fatto una riunione con tutti i delinquenti del 41bis -gli abbiamo portato i poeti come alibi. Con loro rispetto alla gestione del futuro museo, ho fatto un discorso molto chiaro: “Noi siamo artisti e vogliamo donare questo museo a Librino, ma non al sindaco né al presidente della Regione, perché non si può donare la bellezza a chi di fatto l’ha negata”. Se poi vogliamo parlare di mafia, c’è quella della droga, degli appalti, delle armi, ecco -ho aggiunto- io sono un “mafioso della bellezza”, e vorrei donare questo museo ai vostri figli. Insomma ora stiamo facendo fare una cooperativa ai figli dei delinquenti e proprio loro dovranno accompagnare i turisti.
In autunno inaugureremo un nuovo progetto: a Librino c’è un muro di quattro chilometri che attraversa tutto il quartiere, ecco, ora su questo muro ci stanno lavorando i bambini. Attualmente ci sono 15 artisti impegnati nelle scuole con dieci laboratori attivi. Il tema è quello della Grande Madre e i bambini realizzeranno cento pezzi in terracotta, che ritraggono la faccia della loro mamma e che verranno installati a settembre, quest’anno ne facciamo 500 metri… I bambini in realtà ne fanno due pezzi, uno lo installano sul muro e uno se lo portano a casa. Così questo muro anno dopo anno si riempirà di questi pezzi di terracotta e quando i bambini saranno grandi potranno dire ai loro figli di essere loro gli artefici di tutto questo.

Joseph Rossetto, Bobigny, Francia
Il collegio di cui sono preside è a Bobigny, nella periferia parigina, e ospita ragazzi dagli undici ai sedici anni originari di 82 paesi del mondo. Questi giovani spesso presentano una forma di sofferenza psicologica legata alla precarietà e anche all’autorappresentazione. Questa grande eterogeneità è una potenziale ricchezza per la scuola, purché si sappia gestirla. Le manifestazioni di protesta avvenute in Francia nel 2006 hanno evidenziato il fallimento e l’inadeguatezza della scuola. Siamo arrivati al punto che questi ragazzi non apprendono più, non hanno più accesso alla formazione. Tendono a esprimersi con modalità di rottura e non sviluppano un legame con i loro insegnanti. Ciò che li caratterizza è l’assenza di parole, di sintassi e in generale la mancanza di mezzi di espressione rispetto a ciò che desiderano e a ciò che vogliono dire. Più della metà dei ragazzi che entrano nell’istituto nell’età della scuola media non è in grado di scrivere cinque righe di francese correttamente. Nelle banlieues nasce così una nuova lingua, un gergo, che si fonda non sulla cultura ma sulle parole di violenza. Non è sicuramente una lingua di solidarietà.
Ora, perdere la lingua significa perdere l’inventiva, la creatività, l’immaginazione, anche la memoria, e quindi la storia e infine i miti perché tutto è fondato sul linguaggio. E’ una perdita globale, culturale.
Molti di questi giovani rompono con la cultura d’origine, con la cultura della famiglia, senza però sostituirla con qualcosa d’altro, restano in una sorta di territorio sconosciuto. L’insicurezza legata a questa condizione è all’origine dei disordini scoppiati nelle banlieues nel 2006. E’ evidente che di fronte a questa sfida la scuola ha perduto la capacità di trasmettere qualche cosa.
Per lavorare in questo contesto in modo diverso noi abbiamo allora voluto costruire una scuola differente, un luogo che possa costituire una risposta a ciò che questi ragazzi chiedono.
Si chiama “scuola dell’esperienza” e la sua metodologia ci rimanda al racconto delle realtà di Medellin o di Catania che abbiamo ascoltato.
Volendo entrare nel merito dell’organizzazione di questa scuola, dei principi che ci guidano, dirò che uno dei punti per noi è che gli insegnanti, per svolgere bene il loro mestiere, devono essere polivalenti (dal punto di vista delle discipline ma anche della cultura in generale), devono pensare, usare la capacità inventiva, devono essere curiosi e aperti al mondo. Insomma, devono sapere tante cose ed essere appassionati. Solo così possiamo sperare di essere all’altezza di questi giovani.
A questo scopo, abbiamo creato un laboratorio di ricerca con uno psicanalista specializzato nell’età adolescenziale, che coinvolge tutti i docenti del collegio.
In questo luogo possiamo parlare dei problemi che incontriamo nello svolgimento del nostro lavoro, discutere dell’espressione verbale e corporea dei giovani, interrogarci e confrontarci sull’autorità e su tutto ciò che ci preoccupa. Questo lavoro poi deve tornare in classe attraverso la messa in parola delle istanze dei docenti e degli allievi. Io ci tengo molto a che nell’istituto si applichi un’etica della parola tra insegnanti e tra studenti. Questo è un po’ il centro del mio lavoro.
Voglio dire qualche parola su uno dei nostri progetti più importanti. Come dicevo, una scuola dell’esperienza è un luogo in cui ciascun giovane può trovare un’occasione che soddisfi le sue esigenze, dalla creazione di relazioni, alla poesia, alla cultura, all’arte, al lavoro sul corpo. L’obiettivo primario dev’essere l’apertura al mondo, anche attraverso i viaggi.
Durante la settimana si lavora a varie cose, ma c’è una giornata dedicata specificamente al progetto che è diventato un po’ il cuore del nostro lavoro. Si intitola “Avec le mots, avec la voix, avec le corps”, cioè “con le parole, con la voce, con il corpo”. Si tratta di una ricerca centrata sulla poesia, sulla scrittura poetica, sul teatro e sulla danza contemporanea e quindi sul corpo. La scuola è aperta a ogni forma artistica, è un lavoro multidisciplinare.
Perché questa metodologia? Perché la scuola tradizionale non sa riconoscere la potenzialità degli alunni.
Ora, anche noi partiamo dalle grandi opere letterarie, artistiche, ma per andare oltre. In questo caso abbiamo scelto l’Iliade di Omero perché si presta a uno studio storico, filosofico, antropologico, letterario e anche delle mentalità. Attraverso l’Iliade abbiamo riscoperto il significato dell’onore, la morte eroica, e abbiamo rimesso al centro la parola. In pratica abbiamo fatto uno studio di livello universitario con dei ragazzi di 14 anni. Dopodiché abbiamo scritto noi un nuovo testo. Abbiamo trasformato l’Iliade in una sorta di James Bond che ripropone tutti i valori del testo antico.
Il risultato è stato uno spettacolo teatrale di un’ora che poi è stato mandato anche in video. Per realizzarlo siamo anche andati ad Atene per filmare il paesaggio e le scene.
In pratica abbiamo fatto un lavoro preliminare sul testo antico, poi l’abbiamo trasformato in un testo teatrale inedito cercando di tener saldi i valori e anche la poesia. Dopodiché siamo partiti alla volta della Grecia. Da allora ogni anno 250 ragazzi intraprendono questo viaggio.
Abbiamo prodotto anche un libro e un dvd. Il lavoro è intitolato “Che classe la mia classe” e parla proprio del percorso fatto dai ragazzi. L’abbiamo mandato anche alla tv.
Ora faremo l’Odissea. Abbiamo fatto uno studio per trasformarlo nella storia di un dittatore che sottomette il suo popolo sopprimendone la lingua, la cultura e la memoria. Ulisse e i suoi compagni, cacciati, lasciano la Grecia in nave e girano il mondo conoscendo altre realtà e i problemi di oggi, l’immigrazione, la scuola, l’esclusione, fanno quindi una rivoluzione e rovesciano il regime del dittatore.
Questo è giusto qualche aspetto del lavoro che svolgiamo a scuola. Il resto del tempo è organizzato per “eventi”, in cui le discipline si collegano le une con le altre dando vita appunto a un “avvenimento”. Abbiamo sempre un approccio multidisciplinare, ma reale, concreto. E poi c’è l’attenzione alla solidarietà, al mutuo aiuto tra ragazzini e tra professori, vogliamo che la scuola sia un’organizzazione vivente in cui i ragazzini si sentano presenti, protagonisti. Inutile dire che per costruire questa trasmissione del sapere, questo apprendimento ci vogliono legami culturali “esigenti”, io li chiamo così…

Denise Calabresi, Bologna
Sono educatrice e accompagnatrice sociale. I ragazzi di strada non sono bande, non pensate a ragazzi che spacciano, semplicemente, avendo abbandonato la scuola, passano la maggior parte del loro tempo in strada.
A Bologna c’è un grosso problema di inserimento lavorativo degli adolescenti, i ragazzi che hanno un’età inferiore ai 18 anni faticano a entrare nel mondo del lavoro, quindi a 14 anni, se non si iscrivono alle superiori, si trovano in strada a fare qualsiasi cosa.
Queste zone sono segnate da un conflitto tra il territorio che vuole che i ragazzi si comportino in un certo modo, che non ci sia confusione, che non parlino, non disturbino, ecc. e invece la comunità di strada, che è composta dai ragazzi, dai loro leader, spesso ex ragazzi con un passato turbolento, e da poco più che bambini che prendono come modello quelli più grandi che commettono atti vandalici, furti, ecc.
Io opero in due quartieri alla prima periferia di Bologna. Nella zona Lame e a San Donato. Parliamo di periferie vicinissime al centro dove però i ragazzi non escono, non si avvicinano al centro, non sanno neanche bene dove sia, non conoscono le vie principali. Conoscono solo alcuni punti di riferimento: la Nutelleria del centro, dove si ritrovano sia perché zona di piccolo spaccio sia per incontrare delle ragazzine. Oppure il mercato. Non conoscono molte altre zone del centro.
A San Donato c’è un ponte che divide il quartiere dal centro. Ebbene, loro non oltrepassano mai questi confini. Portarli in centro è un’impresa. Come gruppo preferiscono rimanere sul loro muretto. In zona Lame c’è il muretto, a San Donato sono più fortunati perché c’è il campetto da calcio. Ora, dove c’è il muretto i vicini si lamentano perché i ragazzi stanno lì coi motorini e quindi disturbano, perché la sera si fermano a chiacchierare lì sotto… Nella zona San Donato invece la problematica è diversa: i ragazzini stanno in questo campetto da calcio dove attorno c’è di tutto, spacciatori, gente che “si fa” proprio accanto al campo, peraltro pieno di siringhe e poi ci sono i barboni che interagiscono con i ragazzi. Uno dei leader dei ragazzi -lo chiamano “il mister” perché li allena a calcio- la notte dorme lì, ha il sacco a pelo, gli abbiamo trovato un posticino tranquillo, sempre meglio della “zona siringhe”.
Ecco, noi operatori in sostanza dobbiamo far da mediatori tra i ragazzi e il vicinato, i ragazzi e la biblioteca e i ragazzi e il centro civico. Al centro civico, per dire, ci sono le macchinette con le merendine, ma i ragazzi non possono entrare. Le merendine sono per quelli degli uffici… Così i ragazzini, visto che non possono entrare, di notte sfondano porta o finestre solo per vendicarsi.
In questa zona lavoro con 40 ragazzi, un po’ di tutte le età, partiamo dai ragazzini di 8-9 anni fino a quelli di 27-28, che però sono adolescenti. C’è un’infantilizzazione anche negli adulti. Arrivano trentenni che dicono: “Ragazzi, andiamo a spaccare quella macchina” e i loro figli casomai fanno parte del gruppo. Dobbiamo poi mediare con la mentalità di strada, per cui: “Se tu mi guardi in modo brutto, io ti colpisco”, oppure “Io porto sempre il coltello in tasca perché se tu ti azzardi a guardare il mio fidanzato ti arriva una coltellata” (in un gruppo ho cinque ragazzine che girano col coltello e stanno rischiando il carcere minorile). Con queste ragazzine sto discutendo molto, una ha accoltellato un’altra solo perché ha guardato il suo fidanzato, fortunatamente senza danni gravi. C’è anche questa cosa del possesso non solo delle persone (lui è mio e non lo devi guardare) ma anche del territorio. Un gruppo di un’altra zona non può entrare senza chiedere il permesso, anche se è dello stesso quartiere.
A livello istituzionale c’è evidentemente una rete, costituita in primis dagli istituti scolastici, che però non riescono a contenere i ragazzi: la maggior parte di questi ragazzini abbandona la scuola, anche con la compiacenza dei genitori che la considerano inutile, o addirittura in contrasto con il loro modo di educare i figli. C’è la mamma che non fa più andare a scuola il bambino di nove anni perché ha litigato con la maestra. D’altra parte qualche genitore spesso addirittura interviene nelle dinamiche dei ragazzi (tu tocchi mio figlio io ti picchio) anziché mediare. In generale poi manca il dialogo tra genitori e figli. Non sono interessati a quello che il loro figlio fa fuori dalle mura domestiche.
Poi ci sono i servizi sociali che ugualmente fanno fatica a lavorare con le famiglie.
Solo nel mio gruppo i 40 ragazzi sono tutti segnalati ai servizi sociali ed è una piccola zona del quartiere. Rispetto ai servizi per i minori poi c’è un atteggiamento particolare. Ormai questi ragazzi sono talmente abituati a essere seguiti dai servizi, perché casomai già i loro genitori erano stati seguiti, che vivono questa presenza quasi con indifferenza. Molti hanno anche problemi di violenza in famiglia, ma le comunità a Bologna sono già strapiene. Allora o commetti davvero un atto criminale… Un ragazzo era stato buttato fuori dalla madre e dormiva in una macchina abbandonata; segnalato varie volte, non si sapeva dove metterlo, alla fine lui ha avuto la genialata di rubare e così è stato inserito nella comunità all’interno del carcere e adesso ha un tetto sopra la testa. L’oratorio anche è un po’ un problema perché lì ci sono i ragazzi tranquilli e il gruppo di strada disturba… Le associazioni presenti sul territorio sono le uniche che davvero si occupano dei ragazzi, facendo e proponendo diverse attività di partecipazione.
Come si fa a mediare tra questi ragazzi, il territorio e la comunità adulta?
Noi pensiamo si debba partire dall’ascolto e dalla responsabilizzazione. Nel percorso che abbiamo avviato sono i ragazzi a proporre le attività. Dopo un anno hanno fatto una raccolta firme, una petizione, per avere uno spazio. Il loro passatempo era infatti stare su una panchina, pioggia, neve… sempre lì.
Adesso lo spazio l’hanno avuto e questo ha in qualche modo ribaltato la situazione, tant’è che l’hanno imbiancato loro, addirittura di sabato! Mi hanno chiamato: “Denise vieni che imbianchiamo”. Ora stanno sistemando tutta l’area. Hanno un campetto sportivo che non è nemmeno a norma (i canestri sono scentrati e c’è addirittura una pianta nel mezzo), bene, ora per abbellirlo hanno deciso di fare un murales e stanno dipingendo il pavimento.
Ecco, il fatto di partecipare all’abbellimento del loro territorio è una grande chance per loro. All’origine del loro disagio c’è infatti anche la sensazione di essere inutili, inetti. Davvero si sentono uguali a degli zero e quindi sviluppare le loro capacità, le loro competenze è importantissimo.
Ma altrettanto importante è coinvolgere le famiglie. E’ nato così un progetto per incoraggiare i genitori all’ascolto e alla partecipazione alla vita dei loro figli. I genitori più attivi hanno coinvolto gli altri attorno a un tavolo in cui davanti a un tè, una cioccolata, un dolce casalingo, parlano dei loro figli. Bisogna infatti considerare che parliamo di persone sole che non hanno con chi confrontarsi sui problemi di un figlio che cresce, di un adolescente. Questi genitori spesso lavorano fino a tardi e non hanno tempo né per i figli, né per discutere dei figli. D’altra parte nelle grandi città l’affitto e l’alimentazione sono molto costosi e non ce la si fa ad andare avanti se non si lavora entrambi a tempo pieno. Da questo punto di vista, il fatto che il ragazzino non vada più a scuola ha molteplici effetti negativi, nel senso che proprio la scuola era anche un potenziale punto di aggregazione dei genitori.
Forse però la cosa più gratificante è che questo momento di confronto sia nato grazie ai genitori stessi. Noi l’unica cosa che facciamo è di fargli da tramite coi ragazzi e dare loro una sala. Insomma, pur in un contesto così problematico, mi sembra stia nascendo una “comunità educante” nel vero senso della parola, una comunità che si sta muovendo per entrare in relazione coi ragazzi, per comunicare ed educarli, cercando di farli crescere, anche responsabilizzandoli.

Cesare Moreno, Napoli
Io sono uno dei coordinatori del progetto Maestri di strada che da dieci anni si occupa di ragazzi che non vanno a scuola riportandoli in una scuola che cerca di essere diversa. Per esempio una scuola che li accolga, che li valorizzi e che cerchi di fare le cose che avete sentito.
Preferisco però non parlare del progetto Chance, ma di questa giornata: il titolo è “educazione e città” e gli interventi che abbiamo sentito da Medellin a Catania passando per Parigi e Bologna hanno fatto vedere come la città educa e come l’educazione crea la città.
Educazione e città sono due facce della stessa medaglia: l’educazione serve a sviluppare legami e la città sono i legami. Shakespeare diceva: “La città è la gente”, ma prima di lui Aristide il Giusto diceva: “La città non sono le solide mura o i cantieri navali che costruiscono le navi da guerra. La città sono gli uomini nobili che sanno utilizzare le occasioni che la città offre”. E l’espressione “uomini nobili” non è la premessa, ma il risultato: l’uomo diventa nobile se riesce a utilizzare le occasioni della città. E la grande occasione della città è il bello della città, l’abbiamo sentito.
Il compito dell’educatore è proprio quello di riuscire a vedere ciò che è bello, pulito e buono dentro persone che normalmente sono viste appunto come brutte, sporche e cattive. Tutte le persone che mi hanno preceduto hanno proposto una politica della poesia e della bellezza.
Ricordo quello che ha detto Oscar sullo scrivere come modo per ritrovare la propria identità e creare la propria storia. Un ragazzo carcerato a Nisida ha scritto: “A me piacerebbe avere un animo capace di pensieri buoni”.
Prima che vada in carcere il corpo, a volte il cuore l’ha preceduto. Riuscire ad avere pensieri buoni significa che io mi posso ritenere buono. Ma uno che vede e che pensa solo brutture è una persona che già sta in carcere. Il termine latino captivus, significa appunto prigioniero: cattivi sono i pensieri coatti.
Joseph Rossetto ha parlato di “legami culturali esigenti”, bisogna comunicare ha ripetuto Denise; teatro, musica, poesia, arti visive servono a comunicare attraverso il bello, ed è la comunicazione che ci rende cittadini. E’ il fatto che io mi sento legato agli altri attraverso la condivisione di emozioni profonde…
Qui siamo nella sede del gruppo Abele, che è fondatore della rete Libera, cioè della rete per la lotta alla mafia e per l’affermazione della legalità. Legalità è innanzitutto la capacità di stabilire legami, perché se io stabilisco legami diventa difficile, molto difficile, attaccare le persone a cui sono legato.
Questo è politica nel modo in cui lo spiega anche Antonio; lui è arrivato al paradosso di dire “sono mafioso dell’arte, del bello”: un giusto paradosso per far capire che bisogna mettersi su un altro piano rispetto alla politica come la conosciamo. Allora Denise ed Antonio fanno politica, cioè costruiscono la città, i legami che tengono insieme le persone e lo fanno con la comunicazione, la parola, con la condivisione emozionale, con la condivisione del bello. Se parti di lì poi puoi ottenere il resto.
Il Progetto Chance è una scuola e cerca di tradurre tutto questo in apprendimento scolastico. Arte, comunicazione, legami sono fondamentali per poter tenere in relazione le persone; successivamente è necessario diventare padroni degli strumenti di pensiero. Riuscire a tradurre lo stato di grazia emozionale, artistico, in disciplina del pensiero e della persona è molto difficile. Il più delle volte nel compiere questa operazione le discipline scolastiche uccidono “la gallina dalle uova d’oro”, uccidono le emozioni, la comunicazione, ed i legami, che sono all’origine di un pensiero ancorato nel sé. Così facendo ostacolano la crescita della persona perché mettono in primo piano l’assimilazione delle discipline.
Lo scrittore svizzero Peter Bischel ha scritto questa frase emblematica: noi non dobbiamo apprendere le discipline, noi dobbiamo apprendere “dalle” discipline. Cioè dobbiamo apprendere dalle discipline ciò che serve alla nostra vita, ciò che serve alla nostra crescita.
La scuola come la conosciamo oggi non è organizzata per fare questo.
Oggi è stato messo in evidenza ciò che devono fare gli insegnanti. Oscar ha detto che ha scelto un gruppo di docenti che oltre alla disciplina sapevano comunicare e gli ha dato il compito di smettere di insegnare le discipline e parlare coi ragazzi. “Al posto di fare matematica chiacchierate coi ragazzi”, ha detto loro -rischiando il licenziamento. Chiacchierare coi ragazzi viene considerata una cosa che fa perdere tempo… invece tutto quello che abbiamo sentito e visto qui dimostra che chiacchierare coi ragazzi è guadagnare tantissimo tempo, è guadagnare l’umanità dei ragazzi.
Allo stesso modo Joseph dice che i suoi insegnanti devono essere appassionati ed aperti a molte conoscenze; Antonio porta a scuola poeti ed artisti. Insomma c’è bisogno innanzitutto di mettersi in contatto con l’essere delle giovani persone.
Una delle cose che facciamo attraverso Chance è una scuola che ascolti molto di più, prima di parlare bisogna ascoltare e rispettare pensiero e parole dei giovani. La scuola non riesce a creare lo spazio di comunicazione perché non ascolta, perché la comunicazione o è reciproca oppure non c’è. L’idea è che ci sia un sapere distribuito e che il lavoro del docente sia soprattutto quello di dare forma a questo sapere che non è il suo ma è il nostro, nasce dall’interazione e non dalla trasmissione unilaterale.
Apprendendo noi trasformiamo la nostra vita e la nostra città.
Il lavoro che fa Denise per strada fa vedere anche fisicamente come si costruisce qualcosa assieme. Nel lavoro di Antonio è evidente che si sta costruendo la città, non solo come relazioni, ma anche fisicamente: quei bambini stanno cambiando il volto della città.
Tra le cose che ha raccontato Antonio la più sconvolgente per me è l’opera d’arte lunga quattro chilometri. Questa gente sta costruendo la propria città. Questa idea è veramente rivoluzionaria perché significa che la bellezza, l’arte, la riflessività non sono un lusso delle menti elevate, ma si tratta della vita dell’uomo: qui si sta cercando di restituire l’uomo all’uomo, sollevandolo dall’identificazione coi suoi bisogni: la fognatura, il buono alimentare…
Quando mi chiedono: “Ma tu che fai contro la camorra?”; “Io insegno ai ragazzi il loro valore”. Perché io posso fare un omicidio per 200 euro solo se penso che la mia vita valga zero. Se sono convinto di valere non mi svendo e neppure mi vendo.
Quello che la scuola deve fare è insegnare ai ragazzi che la loro vita vale, che sono importanti, che sanno fare cose belle, cose buone, anche di utilità sociale. Tutte le volte che coinvolgiamo i nostri ragazzi in attività sociali, si comportano in un modo eccellente. E’ impressionante.
Quindi, per concludere, io vedo una grande differenza tra il lavoro che faccio io e quello che è stato esposto oggi: noi stiamo un po’ troppo nell’angolo. Quello che ci manca è questa dimensione politica del fatto che noi stiamo rifondando la città.
Le nostre autorità ci tengono nell’angolo e spesso anche noi ci adattiamo all’angolo. In realtà, ogni volta che qualcuno si occupa di emarginati e esclusi sta allargando i confini della cittadinanza, sta cambiando la qualità della vita urbana. Il sindaco di Medellin ha deciso di dedicare metà del bilancio alla scuola. Nessun gesto paragonabile abbiamo visto nelle nostre città.
C’è la città verticale del cemento, della ‘skyline’ come hanno imparato a dire i cementificatori milanesi, ma prima di questa viene la città orizzontale dei legami e della dignità. Vorremmo che a questa città si dedicassero, se non i politici, almeno gli uomini di cultura e gli educatori.