Dopo alcuni mesi che nel ghetto non c’era più da mangiare, i tedeschi lasciarono un volantino in cui dicevano che chi avesse portato i bambini un certo giorno alla stazione avrebbe ricevuto del pane e una scatola di marmellata. E che i bambini sarebbero stati mandati in una colonia dove sarebbero stati bene. Mia nonna aveva la quasi certezza che avrebbe perso il figlio, ma, da una parte non voleva crederci, e, dall’altra, comunque, quella era l’ultima speranza per il bambino che stava già male. Così, dopo averlo rifocillato, mandò il bambino con il treno. E l’ha perso. Dopo seppe quello che era successo, perché dove sostavano i treni la gente raccontava e le voci tornavano all’indietro.
Fu a Bergen Belsen che mia nonna andò molto vicina a morire. Era addetta a raccogliere la spazzatura e c’era un cuoco, tedesco o polacco, che nella cucina tagliava il pane a cubetti e buttava nella spazzatura il pane che veniva tagliato male. Allora lei poteva raccogliere il pane gettato via. E il cuoco, che se n’era accorto, rompeva apposta dei cubetti di pane per gettarli nella spazzatura per mia nonna. Un giorno il capo di Bergen Belsen l’ha vista raccogliere il pane, l’ha presa e l’ha tenuta così forte che nel braccio non restava più sangue. Lei dice che sapeva che stava per sparargli e che quella volta “s’è arresa”. Però poi l’ha lasciata. “Forse non era molto concentrato in quel momento”.
E sempre a Bergen Belsen conobbe mio nonno, che, a sua volta, aveva già perso moglie e figlio. Lavorava nelle stalle, perché, essendo stato nella cavalleria polacca, era lì come prigioniero di guerra e non come ebreo. Badava i cavalli dei tedeschi e siccome i tedeschi tenevano molto alle cose di cuoio, lui lavorava il cuoio per loro.
E un giorno mia nonna, non essendo vestita a sufficienza, svenne nella neve. Lui la raccolse, la portò nella stalla e la nascose. E appena si riprese, lui cominciò a insegnarle come doveva lavorare lì. Ma una donna non doveva essere lì a lavorare, poteva facilmente essere scoperta. Per due volte riuscì a sfuggire ai tedeschi. La prima volta riuscì a uscire dalla finestra e rimanere attaccata alla grondaia il tempo che non la vedessero e non se ne fossero andati. Un’altra volta che l’avevano scoperta -e quella volta mio nonno, insieme agli altri che lavoravano con lui, prese molte botte- l’avevano già caricata sul treno per Auschwitz, quando lei, in un momento in cui la porta era aperta senza che ci fosse nessuno a controllare, scese giù e scappò una seconda volta. La terza volta non c’è stato nulla da fare, dovette partire.
Nel frattempo lei e mio nonno si erano innamorati. Non era un amore di tipo carnale, nessuno in quella situazione aveva delle fantasie. L’amore si manifestava nel dare un pezzettino di pane in più, o nel trovare del filo per cucire il vestito. Lui le dichiarò il suo amore facendole un paio di tacchi di cuoio per le sue scarpe di legno e lei, con quei due tacchi, si faceva bella con le compagne...
Quando arrivò ad Auschwitz era di notte, il viaggio era durato una settimana in un treno pieno di gente, senza acqua né niente. E i tedeschi aprirono i vagoni e ordinarono loro di scendere, ma bisognava aspettare l’alba. Tutti erano molto apatici, scendevano e si sedevano a terra. Era inverno e nevicava. Lei, invece di stare con gli altri, entrò in una baracca della stazione dove c’era un rubinetto. Si tolse i vestiti, li lavò, e riuscì anche a riposare per un po’ su della paglia. Così al mattino, avendo un aspetto più sano degli altri, passò facilmente la selezione. Disse che sapeva fare l’infermiera, così è vissuta un anno e mezzo ad Auschwitz come infermiera.
Nei primissimi giorni, subito dopo la selezione, lei, che sapeva che le sue quattro sorelle potevano essere ad Auschwitz, sentì per caso due detenute parlare della sua somiglianza con la tale detenuta e chiedersi "sarà sua sorella?” Ma lei non andò a chiedere notizie perché, in quel momento, ad Auschwitz, non poteva permettersi di in ...[continua]
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