Il tema che volevamo affrontare con lei è quello del rapporto fra il male e la libertà. Ad Adorno, che sosteneva che dopo Auschwitz non si poteva più fare filosofia o poesia, Luigi Pareyson ribatteva che, invece, quello che si impone dopo Auschwitz è cominciare a pensare nella presenza dell’orrore...
La filosofia, nella sua storia, non ha mai elaborato gli strumenti per penetrare l’orrore estremo e non è un caso che alla filosofia, cioè a un discorso razionale, concettuale, il male appaia in termini di orrore, cioè di qualche cosa che lascia inorriditi, paralizzati. Tuttavia si potrebbe anche chiedere che cosa può pensare la filosofia se non il male, che è un dato primario di cui tutti facciamo esperienza, ed è per questo che molti spiriti pensosi, forse più poeti che filosofi, hanno pensato questo legame per cui il male è connaturato inestricabilmente, in modo assoluto, con l’esistenza. Per Leopardi -che scrive è funesto il dì natal- nascere è patire, ma in Leopardi non c’è che una lontana eco di quella che gli antichi greci chiamavano “la sapienza del Sileno”, il semidio che insegna all’uomo che nascere è male e che la cosa più bella che si possa augurare a colui che è nato è di morire presto, cui fa eco la sentenza di Anassimandro, per cui nascere significa pagare il debito che ciascuno di noi ha contratto con la natura: siamo nati, quindi dobbiamo morire.
Il legame tra esistenza e male è stato quindi sempre riconosciuto, ma è stato inteso come un legame costitutivo ed è per questo che, in definitiva, per la filosofia non ha fatto problema. Sembra un paradosso, ma se il male è necessario la filosofia non può che prendere atto di questa necessità, ed infatti c’è una lunga tradizione filosofica -quella che in termini molto banali può essere definita come il pessimismo filosofico che dall’antica Grecia arriva fino a Schopenhauer- che pensa il male come un peso necessario, in una sorta di esorcismo per cui l’accettazione del male come destino serve a liberarsi da questo pensiero. C’è però una tradizione filosofica, che è quella inaugurata dal cristianesimo, che rompe col pessimismo pagano e chiede unde malum?, cioè se questo che noi viviamo come un destino dell’esistere sia davvero tale o non derivi da qualcosa d’altro. Lasciamo stare che il cristianesimo, essendosi trasformato in una religione filantropica, tutta spesa sul sociale, abbia a sua volta dimenticato questa domanda, ma nel suo cuore c’è l’affermazione che il male è certo qualche cosa che incombe su di noi come un destino, nascere vuol certo dire patire, ma è un destino di cui siamo responsabili.
Questo è il grande paradosso di quello che chiamerei “cristianesimo tragico” e che si ricollega non al pensiero pre-socratico, non alla sentenza di Anassimandro, ma alla tragedia. La tragedia, si pensi a Edipo e alle grandi figure tragiche, insegna che il destino, che pure incombe su di noi al di là della nostra volontà, è qualcosa di cui noi tuttavia siamo responsabili. Questo è il primo nodo filosofico da sciogliere, perché dobbiamo ricorrere alla filosofia come a quel discorso razionale che cerca di universalizzare i suoi asserti, ma che interroga qualche cosa che si dà non nel concetto, ma nel mito, nell’esperienza religiosa. La filosofia deve fare questo perché è la pratica che interroga, che cerca di tradurre in un linguaggio in cui tutti ci si capisca, i contenuti del mito, strappando il mito al suo valore chiuso in se stesso. Nel mito si rivela qualche cosa di fronte a cui la filosofia sbalordisce, perché in esso è come se il principio di non contraddizione saltasse. Come si fa, infatti, a dirsi nello stesso tempo responsabili e “destinati a”? Come si fa ad essere responsabili del destino? E invece nei miti, sia nei miti tragici dell’antichità classica sia nel “mito” cristiano, viene in primo piano questo paradosso per cui siamo responsabili di un destino. Se le cose stanno così è chiaro che la categoria attraverso cui la filosofia ha solitamente pensato il male, cioè la necessità, il nesso “vivere uguale patire”, non è più quella decisiva e la necessità si rivela come qualcosa di opposto, cioè la libertà, la responsabilità.
E’ la responsabilità che va colta, pensata, al suo livello più alto, cioè come qualcosa che certo riguarda l’uomo e le sue scelte, ma prima ancora riguarda l’essere ...[continua]
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