Da oltre dieci anni vivi con una famiglia Aymara in Bolivia. Qual è stato il tuo percorso?
Come sono finita in Bolivia? Sono quegli itinerari che non hanno un punto di partenza specifico, ma nascono bensì da un insieme di intuizioni, desideri, cose che uno ha captato...
Nel ‘90 ero andata sei mesi in Argentina, in un ambito di formazione più interno alla congregazione di cui faccio parte. Il paese stava affrontando una grave crisi, la prima, e già allora ne ero stata colpita. Che poi magari l’Argentina sotto certi aspetti non è neanche il modello latino americano, però soprattutto i primi mesi, in cui avevo passato del tempo nella parte del sud dove c’è questa presenza Mapuchi, una delle etnie, ero rimasta affascinata: c’è un altro ritmo, c’è un altro modo di relazionarsi alla realtà, di approcciarsi alla vita; nonostante sembriamo tutti uguali, c’è ancora un’arte del vivere differente. Poi queste grandi periferie nella cintura di Buenos Aires...
Avevo conosciuto anche l’Africa perché ero andata a tenere dei corsi in Uganda. Però l’America Latina mi era rimasta proprio nel cuore, forse sentivo anche una certa sintonia. Certo è che per me fu come un momento di nascita: per quanto fossero stati solo cinque mesi, mi trovai a ripensare a tante cose.
Al ritorno avevo ripreso l’insegnamento all’Università a Roma e a Firenze, però mi era rimasto qualcosa...
Così, quando, in ambito congregazionale, si iniziò a parlare della possibilità di aprire una comunità in un altro paese dell’America Latina, mi proposi: "Allora ci vado io”.
Era anche un momento di stanchezza: nella mia vita avevo sempre studiato: mentre facevo il dottorato insegnavo già come assistente di cattedra. Pur essendo impegnata in alcune esperienze sociali, di partecipazione anche attiva nei movimenti pacifisti degli anni 80 con la mia comunità, sentivo che la mia teologia era ancora molto, troppo, teorica.
E così sei partita...
Ho trascorso i primi quattro anni nella parte tropicale, in una periferia marginale. Fino a che nel ‘98 mi sono trasferita a Cochabamba, in questa comunità un po’ sui generis: una famiglia Aymara, una famiglia ordinaria, c’è la mamma, che ormai è anziana, tre figli già sposati e poi i due più giovani.
Conduciamo una vita normale. Io insegno all’università, che dista 15 km. Le città boliviane non sono ancora dei "mostri”, come Lima o Buenos Aires, sono più contenute, per cui esci fuori subito, c’è ancora molto la vita rurale, perlomeno a Cochabamba. Poi c’è questa vita normale di gente gente gente.
L’idea di sperimentare questa convivenza è nata un po’ per caso. Fin dal mio arrivo avevo avvertito con disagio il fatto che in fin dei conti noi stranieri, religiosi e non, spesso camminiamo parallelamente al tragitto delle persone del posto. Così, quando ho incontrato Daria e Diego, e abbiamo avuto modo di scoprire una sintonia proprio sui valori della vita comunitaria, del vivere assieme, abbiamo iniziato a pensarci.
Sono oramai da 11 anni che vivo in questa famiglia. Per me è stato un regalo bellissimo. All’origine di questa scelta non c’è stato alcuno sforzo eroico e ancora meno l’idea di "stare con i più poveri”, per carità, una formula lontanissima dalla mia sensibilità e dal mio pensiero.
Cioè siamo una famiglia a tutti gli effetti, come religiosa ci sono solo io e comunque non diciamo le preghiere. Questa è un’altra cosa che mi ha fatto perdere dei punti. D’altronde io non credo che esista un unico stile di vita religiosa. Mi sembrerebbe anche un po’ ridicolo imporre certe formule. Come in tutte le famiglie, si sta a dei rituali esistenziali, al ritmo, alla libertà e anche all’impegno, alla responsabilità che una vita comunitaria comporta. Ci sono stati anche momenti più faticosi all’inizio, quando c’era poco o troppo lavoro, e quindi le preoccupazioni non ti facevano dormire la notte, ma è normale. Certamente per me è molto bello. Non so se si può proporre a tutti. Poi sai, credo che per vivere assieme un minimo di feeling ci vuole.
Per te questa convivenza è anche un modo per misurare ciò in ...[continua]
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