Da qualche anno, stai sperimentando dei percorsi terapeutici poco ortodossi. Puoi raccontare?
Fin da quando ho iniziato a lavorare, la cosa eclatante, che mi ha anche ferito, è stato constatare che le persone che hanno disturbi mentali importanti, al di là dei loro sintomi, vivono in un totale isolamento: sono isolate rispetto agli altri, rispetto a se stesse, totalmente chiuse al mondo. Fin da subito mi è parso che la loro maggiore sofferenza, al di là delle allucinazioni, dei deliri, degli altri sintomi, fosse proprio il fatto che sono persone sostanzialmente sole. Quando sono arrivato in questo centro di salute mentale, per prima cosa ho aperto gli schedari e ho scoperto che tra i miei pazienti c’erano ventisette ragazzi dai venti ai trentacinque anni. Ho subito pensato: con questi si può lavorare, su questi vale la pena investire del tempo.
La sofferenza mentale, spesso, spessissimo, quasi sempre -se non quando ci sono dei problemi organici- ha un significato, che va cercato. Se questo non viene fatto, ovviamente la malattia si riduce a un fallimento di vita. Invece la malattia può essere la possibilità di dare un senso alla propria esistenza e di ritrovarsi.
Quindi il lavoro era iniziato così, con questa riflessione: la loro grande malattia è l’isolamento. Che non è la solitudine di una persona che misticamente si ritira in montagna o l’isolamento creativo del poeta. È un isolamento rispetto a se stessi e agli altri che non si può descrivere. Poco si può dire di questa condizione, e però la mia convinzione era che potesse essere anche il nucleo dell’attività di recupero. Ognuno di noi si costruisce nella relazione con i familiari e con le persone significative. Non si diventa un qualcuno e poi ci si relaziona, succede il contrario. E quindi, anche nella ricostruzione di una persona che "si è rotta”, la relazione è fondamentale. Ci voleva allora una terapia che piano piano aiutasse queste persone ad uscire dal loro isolamento.
All’inizio ho quindi organizzato delle attività di gruppo, coinvolgendo sia i pazienti che i familiari. Anche la famiglia di queste persone infatti spesso è costretta all’isolamento: avere un figlio che va in giro e dice cose strane, che non è presentabile, isola anche la famiglia.
Il primo esperimento è stato uscire e fare un’escursione nel mio paese d’origine, che si trova tra la Barbagia e l’Ogliastra, al centro della Sardegna. Volevo vedere che cosa succedeva a portare persone che vivono in totale isolamento in una comunità calda e accogliente come quella dei paesi di montagna. Nella lingua sarda, "straniero” e "ospite” vengono detti con la stessa parola: "istranzos”. Perché se uno è straniero deve essere ospitato. Ovviamente avevo preparato l’evento: ci ero andato prima e avevo parlato con le donne del paese spiegando la mia idea. Alla fine siamo partiti con un gruppetto di persone e siamo stati tutti accolti nelle case. I ragazzi, in quei due giorni, si sono sentiti ospiti, anzi parte, di una comunità. Hanno pure imparato a fare il pane. Ovviamente abbiamo avuto anche qualche piccola difficoltà: una ragazza sarebbe venuta solamente se avessimo trovato una casa vicino alla chiesa. Beh, per lei abbiamo trovato una casa con la finestra che dà sul campanile. Bellissimo!
Sono tornati tutti molto contenti. Non solo, un fornaio di Villacidro ha messo a disposizione il suo forno, così i ragazzi hanno continuato a panificare. Addirittura era uscita l’idea di costruire un forno nostro e farne un lavoro. Questa prima esperienza si chiamava "a manu pigada”, cioè "presi per mano”.
Com’è nata l’idea del trekking come terapia?
A un certo punto due infermieri del centro, Antonello Lixi e Ignazio Cossu, appassionati e esperti di trekking, mi hanno proposto: "Alessandro, perché non portiamo i ragazzi a fare trekking?”. Mi è sembrata subito un’idea fantastica. Ho risposto: "Lo facciamo!”. Io ero arrivato qui da un paio d’anni quindi era un progetto quasi improponibile all’istituzione, perché rischioso, strano... Così, invece di timbrare il cartellino, abbiamo timbrato il foglio ferie e siamo partiti coi ragazzi, un paio di genitori e tre amici. Abbiamo trascorso tre giorni nel Supramonte di Baunei mangiando e dormendo all’aperto. È stata un’esperienza straordinaria. Ovviamente avevamo anche una paura terribile, ...[continua]
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