Maurizio Zega è direttore del Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo Aziendale (Sitra) presso il Policlinico Gemelli di Roma. Elisabetta Trinchero, docente presso la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi, da anni si occupa di gestione del rischio clinico nelle aziende sanitarie e di gestione delle professioni sanitarie sia in ambito ospedaliero che territoriale, con particolare attenzione alla professione infermieristica.

Il ruolo e le professionalità dell’infermiere sono in una fase di profonda trasformazione. Potete raccontare?
Maurizio Zega. Credo sia importante sfatare subito il luogo comune per cui la formazione universitaria degli infermieri (la laurea, la magistrale, il dottorato di ricerca) avrebbe realizzato una dimensione di domanda che governa l’offerta. In realtà è la transizione epidemiologica che, di fatto, ha spinto verso un percorso formativo più pregnante ai bisogni della professione infermieristica.
L’incremento dell’aspettativa di vita ha aumentato il numero di soggetti affetti da patologie croniche, con un’aspettativa di vita per i maschi di 81 anni e mezzo e per le donne di oltre 84 anni. Ecco già il primo problema: allo stato attuale il nostro sistema è organizzato per rispondere come se tutte le patologie, tutto il bisogno sanitario fosse acuto quando invece il problema sanitario oggi è prevalentemente cronico-assistenziale. In pratica usiamo un bazooka per sparare a delle mosche. L’evoluzione della professione infermieristica, in ruoli clinici piuttosto che organizzativi, viene proprio dalla consapevolezza della necessità di dare una risposta appropriata a questi nuovi bisogni.
Va aggiunto che lo stesso ospedale per acuti va ripensato. Oggi secondo la normativa italiana, il tipo e la quantità di unità infermieristiche da inserire vengono stabiliti in relazione alla patologia. In realtà il bisogno assistenziale di un paziente con una broncopolmonite cambia se quest’ultimo ha 23 anni o 84. Perché il bisogno assistenziale di un paziente di 84 anni è ovviamente maggiore. Questo fa sì che l’ospedale non possa più essere organizzato per specialità, ma debba prevedere dei contesti polispecialistici organizzati per intensità e complessità assistenziale. Solo così  riusciremo ad accogliere il paziente in modo adeguato, inquadrandolo non come mero problema clinico, ma come persona. E, attenzione, la miglior presa in carico del malato non si limita a programmare il percorso clinico assistenziale interno all’ospedale, ma si interessa anche delle modalità di dimissione di questa persona.
Perché il problema oggi qual è? Che se ricovero un ottantaquattrenne che si presenta al pronto soccorso a novembre con una broncopolmonite e lo dimetto dopo 15-20 giorni (perché sicuramente sarà un paziente complesso), so già che avrò un suo reingresso in ospedale a fine gennaio e di nuovo a fine febbraio, sempre per la stessa ragione.
Noi infatti risolviamo il problema acuto perché abbiamo bravi medici, ma non siamo in grado di garantire la cosiddetta continuità assistenziale, quando invece un appropriato svezzamento verso il territorio è la chiave di volta per non far crollare il nostro sistema sanitario pubblico.
Elisabetta Trinchero. All’Ospedale Niguarda, grazie a un progetto di gestione del percorso delle dimissioni avviato oltre un anno fa, hanno potuto già registrare una sensibile riduzione delle riammissioni inappropriate. Questa è una grossa vittoria non solo per il paziente, ma per l’intero sistema, perché si evita di utilizzare delle risorse in modo inappropriato.
In questa riorganizzazione del sistema, l’infermiere trova proprio una sua collocazione ideale, perché è la figura potenzialmente vincente in quanto è un professionista abituato ad avere una visione della persona prima ancora che della patologia.
Certo, parliamo di un ruolo che deve farsi spazio all’interno di un contesto dove ci sono già tanti attori, e non sempre le condizioni sono favorenti.
Alla fine degli anni Novanta avevo studiato il modello britannico, in particolare la figura dell’infermiere case manager, che addirittura aveva un ruolo di "avvocato” del paziente, una sorta di terza parte che programmava il piano di assistenza declinandolo sulla base di quelle che erano le offerte che in quel momento il sistema era in grado di garantire, sia pubblico che privato. Non consigliava dunque il paziente all’insegna del second best: ti do quel che ti posso dare in base alle attuali ...[continua]

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