Da tempo è in atto una sorta di rivoluzione nell’ambito della cura, in particolare nel rapporto medico-paziente. Ci può spiegare?
Rivoluzione è un termine molto esigente e forse fuorviante, soprattutto se la intendiamo in un senso diciamo politico, per esempio riducendo la questione a "chi comanda?”. Se infatti dicessimo che prima comandava il medico e adesso comanda il malato, secondo me saremmo completamente fuori strada. Questo rischio però c’è. Più che di rivoluzione, io parlerei piuttosto di un cambio di paradigma. Il cambio di paradigma avviene quando i modelli, gli assunti non bastano più a spiegare quello che avviene. Pensiamo al passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano.
Ecco, nella medicina tradizionale, la terra immobile al centro era il medico, mentre il malato, la famiglia giravano attorno a lui. Il medico prendeva le decisioni in scienza e coscienza, dopodiché l’informazione al malato e il suo ascolto erano un optional, lo si faceva per gentilezza e bontà d’animo.
La svolta è avvenuta quando abbiamo preso sul serio la volontà della persona di intervenire nelle scelte e di mettere le proprie preferenze e i propri valori, non al posto della scienza medica, ma insieme alla scienza medica. È questo il cambio di paradigma fondamentale. Che, ribadisco, non significa che prima decideva il medico in scienza e coscienza e adesso decide il malato in base alle sue preferenze (qualcuno direbbe in base ai suoi capricci).
In questo modello si ruota tutti intorno a qualche cosa di più grande, che è una concezione della salute, in cui entrano sia quello che vede il medico, sia quello che vede la persona in base al proprio modello di vita.
Fondamentalmente, il paradigma nuovo è quello di una decisione presa insieme in cui confluiscono da una parte i valori della scienza (la medicina basata sulle prove di efficacia, addirittura la medicina di precisione, quella che tiene in considerazione il profilo genetico), e dall’altra i valori, le priorità della singola persona. La scienza medica da sola non basta, ma questo non può voler dire che il malato è un consumatore che decide in base a valori di mercato.
La medicina può e deve rimanere basata sul sapere scientifico, e quindi sulle prove di efficacia, ma deve anche includere una rinnovata capacità di ascolto e negoziazione.
È questo il grande cambiamento in atto. Ci stiamo riuscendo? La mia risposta è piuttosto titubante. Se da una parte, per esempio, abbiamo introdotto l’obbligo dell’informazione e la raccolta del consenso a qualsiasi trattamento diagnostico e terapeutico, dall’altra la pratica è ben lontana da un modello consensuale.
Il consenso informato è una prassi svilita; l’abbiamo ridotto a una pratica burocratica, quasi a una firma estorta. Qui c’è un ulteriore elemento confusivo: nel modello di consenso informato sono infatti confluite sia le preoccupazioni di raccogliere le volontà e le preferenze del paziente, sia la gestione dei suoi dati, la privacy. Dovendo fare un bilancio, è vero che sono stati riconosciuti dei valori importanti, come l’autonomia, l’autodeterminazione della persona. Il modello da cui veniamo, e che spesso sintetizziamo con la parola "paternalistico”, presupponeva che nel momento in cui noi siamo malati facciamo una carriera all’incontrario, cioè ritorniamo bambini e qualcuno decide al posto nostro, a cominciare dalla decisione se dobbiamo essere informati o no. Questo è il modello da cui siamo partiti. Da qui a dire che siamo arrivati a una considerazione vera dell’autodeterminazione, però, ce ne passa. Io ho molte riserve.
Il medico ha perso l’aura di intangibilità.
Basti pensare all’espressione sopravvissuta a questa stagione culturale: "Mica me l’ha prescritto il medico”, come a dire che se il medico ha prescritto o preso una decisione è insindacabile…
Un medico spagnolo, Gregorio Marañón, ha sintetizzato quel modello dicendo che il malato comincia a guarire quando obbedisce al medico. Purtroppo la contestazione di q ...[continua]
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