Rabin Chattat è docente di psicologia dell’invecchiamento all’Università di Bologna.

Vorremmo parlare del disagio psichico legato all’invecchiamento. I dati sembrano molto preoccupanti...
Faccio una premessa, perché fare l’associazione diretta invecchiamento e malattia può essere fuorviante. Sostanzialmente negli ultimi cinquant’anni abbiamo guadagnato qualcosa come vent’anni di aspettativa di vita, che infatti adesso è di circa 80 anni con una differenza tra maschi e femmine. Questo comporta un aumento della percentuale di persone che possono presentare una limitazione, però vorrei mettere in evidenza che se circa il 40% degli ultra sessanticinquenni ha una qualche limitazione, vuol dire che il 60% vive bene questa fase della vita. Lo dico per uscire da un equivoco: tutte le volte che si parla di invecchiamento sembra che si parli di problemi, per il sistema sanitario, per il sistema sociale, pensionistico, ecc. In realtà cominciamo ad accumulare sufficienti informazioni che ci dicono che si può anche invecchiare bene, che ci sono possibilità di vivere nelle migliori condizioni possibili anche a 70, 80 o 85 anni. Il punto fondamentale di questo ragionamento è che bisogna pensarci prima. Sappiamo, per esempio, che uno dei fattori più protettivi per il deterioramento cognitivo e la conseguente demenza è il livello di educazione, cioè di scolarità. Nella fase di mezzo della vita ci sono poi tutta una serie di elementi che possono aumentare il rischio di sviluppare un deterioramento cognitivo e che riguardano lo stile di vita, la cura della propria salute, la presenza di malattie cardiocircolatorie, di depressione, di psicopatologie. Occorre quindi pensare all’intero arco di vita e che lo sviluppo della malattia è qualcosa che si costruisce, non solo qualcosa che si subisce.
Ma l’aumento delle patologie neurodegenerative è dovuto all’allungamento della vita o a diagnosi misconosciute?
In realtà non è una diagnosi misconosciuta, lo sappiamo già dal 1900 che esiste questo problema, prima lo chiamavamo in un altro modo, arteriosclerosi, ecc. ecc. Questi dati epidemiologici nascono dal fatto che la percentuale a 65 anni si aggira all’1%, a 80 anni è superiore al 20%, se arriviamo a 85 anni siamo sul 40%. è logico che c’è una correlazione diretta tra aumento dell’età, aumento della aspettativa di vita, aumento del problema. Le donne sono più a rischio proprio per effetto dell’età, perché la loro aspettativa di vita è più lunga.
Detto questo, c’è un secondo tema importante prima di entrare nello specifico della demenza. Fino ad ora lo stare bene, lo stato di benessere psichico, fisico e sociale, l’abbiamo contrapposto alla presenza di malattia, come se dividessimo il mondo in due categorie: o sei sano o sei malato. Però se noi perseguiamo questa logica, e non parlo solo dell’invecchiamento, ma anche delle fasi dell’età adulta e forse anche delle fasi giovanili, abbiamo una quota di popolazione destinata a non star bene per definizione.
Allora il tema non è tanto la presenza o l’assenza di malattia. Certo avere una malattia è una cosa che condiziona la vita, ma c’è una risorsa di tutti gli essere umani che è l’adattamento. Una parte del mio impegno riguarda il tema della disabilità: una persona con disabilità magari dalla nascita, o anche acquisita, può star bene? Se io glielo chiedo, lui mi risponde che sta bene, però io da persona che non ha nessuna disabilità tendo a pensare che siccome è disabile non può star bene.
Questo è un altro equivoco dal quale abbiamo bisogno di uscire: non è tanto la condizione in sé e per sé che determina lo stato, ma come le persone si adattano alla condizione e anche come il contesto in cui vivono permette l’adattamento. Io posso avere una disabilità motoria e muovermi con una carrozzina, ma se trovo scalini dappertutto è veramente dura. Questo comporta un ragionamento interattivo, reciproco tra le persone che hanno le difficoltà e il contesto, che è rappresentato dalle famiglie e anche dalla comunità in generale. Piuttosto che pensare all’invecchiamento come a un pericolo, come a un rischio, occorre pensare a come possiamo migliorare, sviluppare o adattare le condizioni delle persone anziane e i contesti in cui vivono in modo da permettere alle stesse persone di continuare a vivere bene. Se noi adottiamo il modello malattia, che è quello predominante, allora per le malattie ci vogliono certamente strutture, trattamenti, però le persone non vivono solo d ...[continua]

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