Per i lavoratori l’Europa rappresenta uno spazio di diritti e di libertà, a partire da quella di muoversi, caso unico nel mondo, e poi regole comuni sulla parità fra uomo e donna, norme che tutelano il lavoratore nel caso di licenziamenti collettivi, fino alla possibilità che gli accordi raggiunti dai sindacati diventino direttive europee vincolanti; ma c’è tanto ancora da fare, basti pensare alla grande diversità dei salari minimi fra paese e paese. Intervista a Marco Cilento.
Marco Cilento è senior advisor presso la Confederazione europea dei sindacati (Etuc). Autore di numerosi studi in materia di diritto del lavoro, si occupa del coordinamento delle politiche economiche e sociali e della messa in atto del Pilastro europeo dei Diritti Sociali.
La Confederazione europea dei sindacati (Etuc, European Trade Union Confederation) è nata nel 1973 per portare la voce dei lavoratori europei all’interno dei processi decisionali dell’Unione. Attualmente ne fanno parte 89 confederazioni sindacali nazionali provenienti da 39 paesi europei, e dieci federazioni industriali europee, per un totale di circa 45 milioni di tesserati.
Vorremmo partire con una domanda un po’ provocatoria: a cosa serve l’Europa dal punto di vista dei lavoratori?
L’Europa ai lavoratori serve prima di tutto come spazio di libertà e di diritti. Per il solo fatto di avere in tasca un passaporto europeo, con un permesso di lavoro permanente inattaccabile e per tutti i paesi membri, l’Unione europea offre una libertà sconosciuta alla maggior parte dei cittadini del mondo, che non si possono muovere dal proprio paese.
In più parliamo di una libertà a tutto tondo, vincolante, perché obbliga gli stati membri a cambiare se stessi in funzione di questo diritto delle persone a spostarsi.
Basterebbe citare le tante sentenze della Corte di Giustizia che hanno dato ragione ai lavoratori quando lo Stato metteva una norma che non facilitava (neanche non impediva) la loro mobilità. In questi anni si sono consolidate alcune tutele importanti, a partire dal coordinamento dei sistemi di protezione sociale, che è un’operazione molto complessa, completata per appena più del 50%. Ma consideriamo anche solo la portabilità delle pensioni: pensate alla differenza tra un lavoratore congolese che torna nel suo paese dopo aver lavorato in Italia e non può portarsi la sua pensione e un italiano che, invece, dovunque abbia lavorato, torna a casa e si prende i suoi sussidi o ancora il pensionato italiano che vuole andare a trascorrere la propria vecchiaia in Portogallo dove la vita costa meno. Questa è una grande libertà.
I sovranisti hanno questa visione dello Stato protettore, in realtà l’Unione europea fa qualcosa di molto importante per i lavoratori: non solo è impegnata a proteggerli, ma li emancipa dalla forza della legge nazionale quando questa non è in grado di fornire alcune tutele. In questo senso, possiamo dire che l’Unione europea, attraverso i suoi principi generali, mettendo in comune i valori costituzionali di tutti gli stati, "libera” il lavoratore dall’oppressione o dalle mancate tutele del suo Stato. Pensiamo ai licenziamenti collettivi, su cui oggi esistono degli standard che sono diventati patrimonio comune di tutti i lavoratori europei. In passato quando un’azienda viveva un momento critico, c’era un cambio di proprietà o andava in insolvenza, si manifestava un grande vulnus nelle legislazioni nazionali. Siccome infatti le protezioni sociali costano, gli stati tendevano a "liberare” le imprese da questo costo per tutelare la competitività internazionale. Grazie all’Unione europea, che ha imposto un quadro di tutele e diritti minimi in questo ambito, non c’è più un problema di competitività.
Oppure prendiamo la parità uomo-donna: la prima direttiva risale al 1975; è un principio che appartiene al Trattato. In un momento critico come quello attuale, questo rappresenta un vincolo forte. Noi abbiamo partecipato al dibattito sulla direttiva per la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare e abbiamo visto come, soprattutto le cosiddette forze sovraniste, stiano facendo passare la discriminazione delle donne come una questione culturale, per cui l’ambito familiare viene definito come uno spazio dove lo Stato non deve intervenire. Mi spiego: se si inizia a dire che la bassa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro è un elemento culturale legato alla tua identità nazionale, è chiaro che non si farà nulla per invertire la tendenza. Ecco, fortunatamente oggi l’Europa viene in nostro aiuto in questa battaglia, perché abbiamo quattro direttive contro la discriminazione che sono diventate leggi.
O potrei citare il caso dei nostri precari della pubblica amministrazione, sottoposti a una successione di contratti a termine. Bene, la sentenza della Corte costituzionale è stata possibile perché esiste una direttiva europea che costringe la legge nazionale a s
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