Luigina Oppi. Io non ho conosciuto suor Agata, ma questa cultura fatta di rispetto e carità insieme, di accoglienza e non di giudizio della persona tossicodipendente, della persona in difficoltà, emarginata, ai limiti della società, si combinava molto bene con la mia impostazione professionale. Io sono arrivata nel ’96-’97 e proprio in quel momento abbiamo iniziato una riflessione comune sul fatto che alcune persone che avevamo in comunità e che casomai avevano avuto un buon percorso, una volta uscite, ricadevano.
Era inevitabile chiedersi se nella comunità stessimo sbagliando qualcosa. Così unendo la mia formazione psicoanalitica e psicodinamica a questo approccio più di comprensione che di giudizio, siamo arrivati a considerare la tossicodipendenza come una risposta di "adattamento” per esempio al dolore psichico che può provare il ragazzo adolescente. Quindi la tossicodipendenza viene considerata come una qualsiasi altra modalità difensiva di adattamento, alla stregua della psicosi, delle malattie ipocondriache, di qualsiasi altro sintomo; si trattava di vederla, cioè, come una soluzione umana, e non come qualcosa che andava solo medicalizzato o punito e regolato dal punto di vista educativo. Una risposta che andava compresa e vista all’interno della persona e della sua struttura e funzionamento.
Quando si esce da una comunità, in cui ci sono condizioni estremamente protettive e accudenti, e ci si trova di nuovo a contatto con le esperienze dolorose della realtà umana, per di più da adulti, il rischio della ricaduta è molto forte. Quando dico dolore psichico intendo angoscia, paura di essere soli, umiliazione, frustrazione, sostanzialmente depressione, che è la discrepanza tra ciò che si vorrebbe essere, tra il proprio sé ideale e ciò che si è in realtà. Se non ho gli strumenti per costruirmi delle modalità di adattamento adeguate e sane, perché non ho avuto una famiglia che mi ha aiutato o perché strutturalmente sono molto fragile, o anche perché cognitivamente non sono attrezzato, posso finire nelle dipendenze o nell’anoressia o comunque cercare altre risposte a questo disagio di cui non ho coscienza. Averne coscienza, riuscire a mentalizzare e a esprimerlo vuol dire avere già delle risorse. Quindi questo è stato un po’ l’input, l’idea alla base dell’associazione e degli educatori.
Successivamente abbiamo fatto un tavolo di lavoro anche con il Sert e con il Comune e abbiamo costruito assieme una proposta, perché era importante che comunque il progetto avesse una connotazione scientifica, educativa; non volevamo una comunità dove uno bussa ed entra, ma dove gli arrivi fossero concertati, verificati, elaborati con i servizi.
Fino ad allora, e in parte ancora, il reinserimento era considerato la tappa conclusiva dell’esperienza in comunità, una fase molto breve, in cui alla persona veniva assegnato un appartamento e trovato un lavoro, dopodiché veniva considerata praticamente a posto. In realtà, quello che succedeva è che spesso il soggetto non riusciva a utilizzare strumenti che gli erano stati forniti, perché dentro di lui le cose erano ancora da sistemare.
Il processo di affrancamento da una situazione come la tossicodipendenza è estremamente difficile, soprattutto se si bypassa la mentalizzazione. La tossicodipendenza è una soluzione immediata che dà benessere, che crea un’anestesia emotiva, per cui spesso non basta proporre in alternativa una realtà fatta di fatica. Ecco, in questo progetto di reinserimento socio-lavorativo si è pensato che la persona avesse bisogno proprio di un accompagnamento che contemplasse sia l’aspetto educativo che una psicoterapia o colloqui personalizzati.
La fase diciamo "dell’appartamento” è quindi cruciale?
Sì, di qui l’idea di un appartamento con cinque persone che lo abitano e che non sono più seguite come nella comunità, ma si gestiscono in una semi-autonomia. Si chiede loro una maggiore responsabilità e gli educatori (una figura femminile e una maschile) sono presenti nelle ore serali. Qui funziona una specie di patto individuale. Abbiamo previsto pure una fase successiva domiciliare, quando la persona magari è rientrata nel proprio appartamento, dove la presenza dell’educatore (meno frequente) resta un punto di riferimento, per ...[continua]
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