Sergio Segio è addetto all’Ufficio Stampa e Comunicazione del Gruppo Abele. Collabora con Fuoriluogo, supplemento mensile de il manifesto. Ogni sera rientra alle Nuove di Torino.

Uno dei provvedimenti più importanti introdotti dalla legge Gozzini è stata la possibilità di scontare la pena, almeno parzialmente, fuori dal carcere. Cos’ha significato quest’innovazione nella vita dei detenuti ?
Il "fuori" del carcere tutto sommato è poco conosciuto, purtroppo se ne parla poco, mentre sarebbe opportuno non sottovalutarlo, perché sebbene sia meno drammatico della carcerazione permanente, pur sempre carcere è. Innanzitutto, alcune costrizioni, come la privazione della libertà, in parte continuano. Ad esempio, la notte e una parte della giornata, nel caso della semilibertà o del lavoro all’esterno, si trascorrono in carcere. Inoltre, i controlli e una serie di misure seguono il detenuto dovunque egli vada. Ma questi sono forse gli aspetti meno rilevanti. Ciò che invece resta preoccupante è che i permessi e le misure alternative alla pena, che nel senso comune vanno sotto il nome di riforma Gozzini, sono sottoposti a un livello di discrezionalità che non di rado sconfina nell’arbitrio, oltre ad un’applicazione geograficamente molto difforme. Voglio dire che nell’ambito di una stessa tipologia di reato e di comportamento carcerario, può capitare che ai detenuti di una città certe misure vengano accordate e a quelli di un’altra no.
Sotto il profilo della cosiddetta certezza del diritto, queste misure hanno dunque introdotto un vulnus notevole. Del resto, soprattutto a partire dal ’92, col rinnovarsi di un clima di emergenza in Italia, in particolare rispetto al fenomeno mafia, la legge Gozzini è stata pesantemente ridimensionata.
Quindi oggi i benefici carcerari, la semilibertà, il lavoro all’esterno, ma anche i permessi, o misure analoghe, sono pochissimo utilizzati. Tant’è che nel clima di generale sovraffollamento che vive il sistema penitenziario italiano (si contano attualmente poco meno di 50 mila detenuti a fronte di una capienza di 37 mila posti, e dal ’91 la popolazione carceraria risulta raddoppiata) le uniche sezioni non sovraffollate sono quelle destinate alle semilibertà.
Questo è un indizio: la capienza dei posti cella per semiliberi è tra i 2400 e i 2800, e i detenuti semiliberi sono circa 1500. Questo per dire che le misure alternative sono concesse col contagocce e con criteri assolutamente non omogenei. Eppure la Legge Gozzini in origine presentava degli elementi positivi perché comunque la sua nascita ha visto coinvolta anche una parte dei detenuti attivi nei singoli penitenziari. Invece, per l’ennesima volta è stata messa in atto quella legge non scritta, però rintracciabile nella storia penitenziaria del nostro paese, per cui per fare le riforme in direzione di una maggiore umanizzazione delle carceri occorrono decenni, mentre per fare le controriforme bastano pochi mesi. Tutto ciò fa diventare una fatica di Sisifo tutti i necessari sforzi di umanizzazione delle carceri. Questa dinamica probabilmente è proprio ciò che impedisce una strategia organica di riforma di questo paese e, per rimanere nello specifico, di riforma del carcere. Gli esempi non mancano: per riformare il codice di procedura penale in senso accusatorio, come nelle democrazie più avanzate, ci sono voluti esattamente 15 anni: dalla prima legge delega datata, mi pare, 1974 al 1989.
Ecco, dopo pochi mesi, e a colpi di decreto, buona parte di quel rito accusatorio che garantisce maggiormente gli imputati è stato attaccato e demolito. Certo, c’è anche un problema di dinamiche legislative, ma molto spesso a questa farraginosità non corrisponde -ed è l’elemento più preoccupante- una cattiva volontà del legislatore, ma una dinamica sclerotizzata. I criteri d’emergenza, capaci di far passare leggi nel giro di un mese, non sono mai stati utilizzati per una riforma del carcere, così i tempi sono sempre assai lunghi.
Qui c’è sicuramente un ingranaggio che non funziona, o meglio che funziona in gran parte con quei dispositivi emergenziali introdotti alla fine degli anni Settanta come risposta al fenomeno della lotta armata, e che sono poi diventati stabili. D’altra parte, sembra che in Italia le logiche d’emergenza si riproducano costantemente: prima il terrorismo, poi la mafia, poi Tangentopoli, poi tutte e due le cose assieme.
Il panorama attuale è sconcertante: Sofri, Bompressi e Pietrostefani l’hanno definito una "disca ...[continua]

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