Dino Greco è segretario della Camera del Lavoro di Brescia, Bruno Campovecchi è segretario dei chimici Cgil di Brescia.

Cosa insegna l’esperienza della Valsella?
Greco. La vicenda Valsella ha dimostrato come non sia né utopico né velleitario portare avanti una lotta di grande significato etico per la cessazione della produzione di ordigni terrificanti come le mine anti-uomo, senza disgiungerla né dalla lotta per la difesa dell’occupazione né da un progetto di riconversione dal militare. Nella vicenda Valsella siamo riusciti a tenere assieme una battaglia etico-morale, con la difesa dell’occupazione e un progetto di riconversione. E’ la storia di un gruppo di lavoratori e di lavoratrici che ad un certo punto scoprono una realtà in parte sconosciuta a loro stessi e, in parte, se conosciuta, rimossa: l’attività produttiva di assemblaggio di parti di strumenti di distruzione e di morte particolarmente terribili. Come sapete le mine anti-uomo sono uno strumento subdolo, ipocritamente dichiarato strumento di distruzione fra eserciti belligeranti, ma che in realtà colpisce essenzialmente le popolazioni civili, i bambini, i contadini, anche quando la belligeranza è finita da tempo. E’ stata questa la scintilla, l’elemento detonatore che ha provocato una specie di collasso psicologico fra gli operai e le operaie della Valsella: pur essendo sicuramente l’ultimo anello di quella catena di produzione, con salari di un milione e mezzo o poco più, hanno deciso di assumere la questione sulle loro spalle anche a prezzo del posto di lavoro, rischiando in proprio, senza fare propaganda, non facendo lezioni di civiltà ad altri. E sia pure con l’aiuto di chi conduceva la campagna per la messa al bando delle mine anti-uomo e condividendo la battaglia con il sindacato che mai si è messo in una posizione reticente o addirittura di contrasto, sono andati incontro a prove davvero molto pesanti.
Campovecchi. L’iniziativa nacque al momento in cui, avviandosi la contrattazione aziendale, io dissi a Dino che avrei posto il problema della riconversione. Devo dire che la prima reazione dell’azienda fu disastrosa, di indignazione addirittura, nessuno in quel momento riusciva a capire il perché di una richiesta del genere.
Convocato dalla proprietà mi sentii dire: "Guardi che noi abbiamo una vocazione soltanto, che è fare questa produzione, mai e poi mai faremo altro". Devo ammettere che Borletti è stato coerente, nel senso che si è lasciato sprofondare dentro una spirale di autodistruzione immolandosi a questo credo: "Io farò soltanto le mine, altre cose non le so fare", al punto che poi ha chiuso.
In questa storia c’è anche l’incontro fra il pacifismo e l’ecologismo con la cultura sindacale. Com’è andata?
Greco. L’incontro non è avvenuto in modo sempre fecondo, bisogna dirlo, ma tutto sommato qui è andata molto meglio che altrove. Si pensi alle vicende più lontane, quella dell’Acna di Cengio, o alla vicenda gravissima del petrolchimico di Marghera. Quando in gioco sono i posti di lavoro il peggior sedimento della cultura industrialista viene fuori e le contraddizioni spesso esplodono. Ma qui, a guidare la battaglia, ci sono proprio gli operai e le operaie della Valsella, e questo è stato molto importante.
Campovecchi. C’è stata questa grande campagna, questa manifestazione da Brescia a Castenedolo; ci sono state poi tutta una serie di interventi esterni e abbiamo avuto dei conflitti. Perché il conflitto? Perché noi qui abbiamo sempre cercato di coniugare la volontà di riconvertire l’attività produttiva dal militare al civile con l’occupazione. Noi non abbiamo mai detto - come altri hanno fatto!- che comunque settanta posti di lavoro erano il prezzo che dovevamo pagare. Noi quei settanta posti di lavoro non intendevamo perderli. Anche questo è molto importante. I lavoratori non si sono mai sentiti abbandonati.
La vicenda Valsella dimostra anche che la conversione non è poi una velleità utopica...
Campovecchi. Quest’idea della riconversione è stata bollata come una passione inutile, come un traguardo utopistico. Invece esisteva un’opportunità concreta: affidarsi a tecnologie che consentono un uso diverso, un uso versatile, (sempre che lo si voglia fare, ovviamente) di quelle acquisizioni scientifiche, e impostando la ricerca in un senso diverso. Ma Borletti, il padrone di questa fabbrica insieme alla Fiat, ha continuato sempre a sostenere che la vocazione della Valsella era la produzione delle mine, forse perché è con ...[continua]

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