A Milano avete avviato un’esperienza nuova, che vede al centro la figura del “vigile di quartiere”. Potete raccontarci?
Giuseppe Cordini. Quella dei vigili di quartiere è un’esigenza sentita da sempre. E’ nelle aspettative della gente avere una presenza costante e riconoscibile, tant’è che le diverse amministrazioni che si sono succedute hanno sempre tentato di dare corpo a questa figura.
L’iconografia di riferimento è quella inglese, che da sempre accompagna un po’ anche la nostra storia: noi dal 1860, da quando c’è la Polizia Municipale di Milano, ci siamo sempre ispirati, anche nella forgia delle uniformi, alla polizia londinese, ma soprattutto al rapporto di comprensione reciproca, presente in questo corpo, che deriva dalla tradizione della Community Police.
Questa è la prima amministrazione che veramente ha investito in questo progetto e l’ha fatto diventare realtà. Si tratta di un’esperienza che non si è ancora consolidata; rimangono delle carenze a livello organizzativo; è un progetto che si va alimentando e ricostruendo, correggendo, passo dopo passo, giorno dopo giorno, con un occhio agli errori e alle esperienze. Non è quindi un progetto definito, è un obiettivo e insieme un’esperienza in corso. In sostanza, quello che contraddistingue l’operato dei vigili di quartiere dal resto dell’universo degli agenti della Polizia Municipale è che questi vigili sono radicati sul territorio, quindi a loro non viene chiesto di compiere precise attività, piuttosto viene affidato un compito che si può riassumere in “attivatevi per aumentare il livello della qualità della vita dei cittadini che vi sono affidati, assieme al territorio”.
Allora, la prima cosa che chiediamo al vigile è di conoscere il territorio, che non è costituito solo dalla strada, dal marciapiede e dai veicoli, ma anche dalla fila dei negozi, dalle persone che ci abitano, da quello che avviene nei cortili, dai giochi alle attività artigianali; tutta la vita sociale e di relazione del quartiere appartiene alla sfera d’interesse del vigile di quel quartiere.
Il vigile è nato proprio per questo, per lubrificare, per agevolare, per rendere più scorrevoli i rapporti tra le persone e le attività. Se si vanno a vedere le vecchie direttive, al vigile si chiedeva di fare da elemento mediatore di quei piccoli conflitti. Quindi, prima ancora di arrivare all’applicazione delle leggi, c’è bisogno di buon senso e di autorevolezza. Proprio per essere autorevole, il vigile deve conoscere e farsi conoscere.
Anche la misura dell’efficacia del servizio è diversa…
G.C. Il vigile, infatti, per avere una misura della bontà del suo lavoro, anche per riceverne una gratificazione, non si riferisce al Comando, o all’organizzazione gerarchica, ma alla gente del suo quartiere, alla quale deve rendere conto del suo operato; questo comporta un grande lavoro di responsabilizzazione e prevede una capacità di autodeterminarsi nelle scelte, perché è lui a dover individuare le priorità. Alcune priorità sono note; nella nostra storia, per consuetudine c’è l’entrata e l’uscita dei bambini dalle scuole elementari. Un tempo era solo per proteggerli dai pericoli derivanti dalla circolazione; oramai ci sono anche pericoli di altra natura, e il fenomeno purtroppo è abbastanza diffuso. I bambini oggi corrono molti più pericoli di un tempo, lo sappiamo tutti. E quindi l’occhio di un vigile in divisa, che conosce i bambini, che arriva a conoscere anche le mamme, i genitori, i nonni e si accorge di presenze estranee, è senz’altro positivo.
Questa è una delle priorità. Per il resto gli argomenti arrivano da soli.
Simona Pognant. Sicuramente molti dei problemi o ritardi nascono dal fatto che Milano è la prima città in Italia ad essersi avviata per questa strada, per cui chiaramente si procede per tentativi ed errori. Nel momento in cui altri vorranno provare la stessa esperienza, eviteranno molti degli errori che sono stati commessi. Qui invece siamo un ...[continua]
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