Furio Di Paola, ricercatore nell’Università di Napoli, si è occupato di ricerca e formazione nel campo della salute mentale. Ha scritto L’istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica (manifestolibri, Roma 2000).

Vorremmo fare il punto sul problema "psichiatria”. Da dove cominciamo?
Dobbiamo cominciare, credo, col parlare di una fitta nebbia, diversi strati non solo di pregiudizi ma di cattiva informazione, che impediscono di vedere il problema nei suoi contorni nudi e crudi. Il "problema” sarebbe la follia e la sua presunta cura - cioè le due cose insieme: follia e psichiatria, "malattia” e rimedio. Non è per niente facile che un cittadino, anche informato su altre questioni civili, si trovi in condizione di attraversare gli strati di nebbia che avvolgono il "problema”.
I luoghi dove la follia è "trattata” ovvero è gestita - parlo di luoghi non solo in senso fisico, ma anche mentale, culturale - i luoghi dove si producono i metodi, le tecniche, le parole stesse con cui le nostre società affrontano il problema, sono posti appartati e strani, esoterici. Voi avete un’idea di cosa si fa dentro un reparto ospedaliero "specializzato” per il problema (viene detto Spcd, "Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura”), o dentro una "residenza protetta”, oppure in un siddetto reparto di "riabilitazione” di una clinica privata?
Qualche idea vaga…
Ecco, ma a riguardo vorrei fare un esempio molto istruttivo. Una storia "ordinaria”, ma densa di insegnamenti perché qui c’è un cittadino che un giorno viene a contatto con l’ "arcano” dei servizi psichiatrici, e decide di raccontare puntualmente che cosa ha visto e sentito. Per fortuna il settimanale Diario ha l’intelligenza di pubblicare la lunga e precisa testimonianza (Luca Fontana, Matti da rilegare, in "Diario” del 24 novembre 1998). Fontana racconta di un suo caro amico, che a un certo punto vive uno di quegli scompensi emotivi che portano a un "episodio delirante”, e viene ricoverato al Spdc dell’ospedale di Parma. Dopo due giorni lo va a trovare e lo trova stravolto, in preda a contrazioni involontarie degli occhi e della faccia, sbava, non riesce a reggere la testa (sono alcuni degli "effetti collaterali” dei neurolettici, i farmaci più usati nei servizi psichiatrici, detti anche "antipsicotici”): tanto che devono portarlo via per fargli un miorilassante per rimediare all’eccesso di psicofarmaci. Fontana fa notare allo psichiatra, con cui aveva parlato in precedenza trovandolo "cortese e scrupoloso”, che il suo amico è ipersensibile a ogni sostanza psicoattiva, pure a un bicchiere di vino, e che "forse si era un po’ ecceduto col dosaggio degli psicofarmaci”. Lo psichiatra accetta l’osservazione e dispone per l’immediata riduzione dei dosaggi. Comunque l’amico la sera stessa sta meglio e il giorno dopo viene dimesso (dal racconto si capisce che aveva avuto una crisi di quelle lievi e che rientrano rapidamente).
Ma ciò che sconvolge il nostro testimone è che l’amico ha ecchimosi su corpo, polsi e caviglie, e racconta che lo hanno tenuto legato al letto per un giorno intero "come un animale”, dopo averlo assalito in "circa una mezza dozzina”, e con lo psichiatra (quello cortese e scrupoloso) che gli teneva ferma la testa e diceva: "se parli, ti slego!”. Apprende anche che adesso i lacci per legare si chiamano, con termine gentile, "le fascette” (come dire, commenta, "le manettine”). Il Fontana naturalmente s’indigna e chiede spiegazioni in giro a vari psichiatri che conosce, in Emilia e in Lombardia, ottenendo una risposta unanime (otto su otto, precisa, e tutti sedicenti "di sinistra”): la pratica del legare le persone è definita "cosa del tutto normale, necessaria routine assolutamente giustificata e giustificabile”.
A questo punto va nel pallone pure lui, non sa più cosa pensare ma proprio perché non è affatto uno sprovveduto, anzi. Racconta infatti di aver fatto, circa trent’anni prima, il volontario con Basaglia, di aver partecipato alle lotte che trasformarono tutta la concezione dei "trattamenti” psichiatrici, e proprio nelle esperienze-pilota che poi portarono alla chiusura dei manicomi (Gorizia, la stessa Parma, Trieste). Ma ora scopre che non è cambiato nulla, si chiede se questa "regressione a trent’anni fa” vale anche nel resto d’Italia, non sa più cosa pensare, si dispera. S’incolpa persino di non aver seguito di più, in tutti questi anni, la vicenda psichiatrica. Ma per fortuna non si dà per ...[continua]

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