Il volume è nato da una domanda di fondo: come è stato possibile che in Europa, una terra tutto sommato cristiana, dove gli elementi di fratellanza dovrebbero rappresentare la cifra caratteristica e tipica della convivenza comune, si sia potuta verificare la tragedia della Shoah? Già all’indomani della Seconda guerra mondiale la questione era stata posta. Una delle risposte -naturalmente non la sola- veniva avanzata da un ebreo francese, Jules Isaac, profondamente colpito anche sul piano personale da quell’evento: in seguito alle leggi razziali promosse dal governo di Vichy, aveva perso il lavoro di alto funzionario nel ministero dell’educazione e, dopo la deportazione, una buona parte della sua famiglia era morta nei campi di concentramento. Quasi come atto di liberazione rispetto ai drammi personali che aveva vissuto, Isaac si dedicò a indagare le ragioni della Shoah. Non fu una scelta facile. Il suo primo libro sulla questione, intitolato "Gesù e Israele”, ebbe una vicenda editoriale abbastanza tormentata. Nel 1948, quando infine comparve, suscitò tensioni, polemiche, anche scontri. In quel libro c’era però una risposta alla domanda da cui siamo partiti. Isaac sosteneva che la Shoah era stata possibile in Europa perché le chiese cristiane avevano insegnato a disprezzare gli ebrei. Egli non poneva, ovviamente, un legame causale, immediato, diretto, tra l’insegnamento ufficiale delle chiese cristiane e la Shoah, ma ne metteva in rilievo un aspetto che giudicava cruciale. Il genocidio degli ebrei si era verificato perché le chiese avevano diffuso un clima, una cultura, una mentalità che ruotava attorno a un’immagine negativa degli ebrei. Su questa base era poi diventato facile radicare un discorso di carattere antisemita.
A suo giudizio, insomma, la lezione del disprezzo, proposta ufficialmente nell’insegnamento delle chiese cristiane, preparava il terreno affinché potesse svilupparsi quel razzismo antisemita che troverà nelle leggi razziali dei regimi totalitari di destra, il nazismo, il fascismo, la sua più completa realizzazione. Nel corso della sua indagine, Isaac si soffermò in particolare sul cattolicesimo, maggioritario in Francia. Tra i vari aspetti -la teologia, l’esegesi biblica, la catechesi, la predicazione, ecc.- prese in considerazione anche la liturgia, esaminando l’immagine degli ebrei che emergeva nel culto pubblico e ufficiale della chiesa. In Occidente si seguiva generalmente il rito latino, facendo riferimento al messale stabilito dopo il Concilio di Trento. Qui attirò la sua attenzione la speciale preghiera per gli ebrei recitata nella funzione del Venerdì santo.
Questa era la sua formulazione: "Preghiamo anche per i perfidi giudei, perché il nostro Dio e Signore tolga il velo dai loro cuori e anch’essi riconoscano Gesù nostro Signore”. E proseguiva: "O Dio onnipotente ed eterno, che non respingi nemmeno la giudaica perfidia dalla tua misericordia, ascolta le nostre preghiere che ti presentiamo per quel popolo accecato, affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati dalle loro tenebre”.
Dal testo emergeva dunque una caratterizzazione degli ebrei come perfidi. Questa qualificazione veniva riproposta per ben due volte, sia nella parte iniziale, l’invitatorio, in cui il celebrante invitava a pregare per gli ebrei definendoli come perfidi; sia nella colletta, nel responsorio, in cui tutta la comunità proclamava che tanta era la misericordia del Signore che non avrebbe respinto nemmeno la perfidia giudaica. Ma cosa voleva dire questo insistito richiamo alla perfidia? Come è noto, nelle lingue volgari il termine significa slealtà, cattiveria, propensione a ingannare, a sfruttare, a tradire. La preghiera offriva dunque un’immagine fortemente negativa del popolo ebraico.
Ora, una caratterizzazione negativa degli ebrei in una preghiera del culto pubblico e ufficiale della Chiesa come quella del Venerdì s ...[continua]
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