Un patto di libertà
problemi di lavoro
Una Città n° 273 / 2021 marzo
Articolo di Tiziana Scalco, Maddalena Acquaviti, Sofia Borri, Luigi Campagna, Cristina Tajani
Un patto di libertà
Lo smart working, malgrado l’improvvisazione dei primi mesi e le legittime preoccupazioni, sembra apprezzato dai lavoratori, che chiedono però di contrattarlo e pongono due condizioni: la volontarietà e un’alternanza casa-ufficio; una sfida resa possibile dalla tecnologia: produrre più ricchezza da distribuire, riducendo al contempo le ore di lavoro. Forum con Tiziana Scalco, Maddalena Acquaviti, Sofia Borri, Luigi Campagna, Cristina Tajani.
Il 24 febbraio si è tenuto il secondo incontro del ciclo “Uomini, donne, cura, economia, lavoro”, organizzato da Demos Milano, in cui si è parlato in particolare di organizzazione del lavoro: smart working, coworking, nearworking, riduzione degli orari e carriere. La ricerca a cui si fa riferimento nella prima relazione è consultabile al link:
www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2020/05/Indagine_Cgil-Fdv_Smart_working.pdf.
Demos Milano è un’associazione sociale, culturale e politica. La sfida che si propone è quella di tenere strettamente uniti questi tre aspetti: partire dalla gente, dalle persone, dagli ambienti per realizzare un’azione sociale che sia costantemente pensata e riflettuta, in modo da poterla riportare in modo compiuto a livello politico. È stata avviata da persone e associazioni dell’area cattolico sociale, ma è decisamente aperta, in quanto le attività politiche e sociali sono realtà condivise da tutti. Non richiede iscrizioni: l’adesione è adesione morale che avviene per comunanza di idee e per una motivazione che abbia a cuore la vita della collettività.
Il lavoro -così precario e marginalizzato oggi- costituisce uno dei nostri interessi prioritari; e dunque la dignità del lavoro, la partecipazione, la cura, l’elevazione della conoscenza dei lavoratori fanno parte dei nostri principali obiettivi. (milano@democraziasolidale.it)
Tiziana Scalco, Fillea Cgil Lombardia
Grazie di questo invito che mi dà l’opportunità di parlare di lavoro, ma soprattutto di uno strumento nuovo su cui si è molto dibattuto in questi mesi. Esporrò i risultati di una ricerca sullo smart working condotta da Cgil e Fondazione Di Vittorio tra aprile e maggio del 2020 ma che ritengo ancora molto attuale.
Il primo dato da segnalare è che prima della crisi lavoravano da remoto circa cinquecentomila persone. Al momento della ricerca se ne calcolavano circa otto milioni!
L’indagine è stata condotta su un campione di 6.170 persone in varie aree geografiche, in parte nel pubblico e in parte nel privato. Sono state fatte 53 domande che riguardavano sia l’area professionale che quella privata, quindi l’abitazione, l’area della cura in generale, il tempo della conciliazione e infine le percezioni di queste persone che si sono viste catapultate nel lavoro a casa.
Il 65% del campione è donna; il 35% è uomo; la fascia d’età si situa tra i 35 e 64 anni, con una prevalenza dell’arco tra i 35 e i 45 anni. Il livello d’istruzione vede principalmente diplomati e laureati.
Il 54% degli intervistati vive in capoluogo di provincia; il 46% in centri piccoli o medi. La maggior parte (57%) vive in un nucleo familiare composto da tre o addirittura quattro persone; solo il 29% vede due componenti. Va da sé che il sistema abitativo ha contato moltissimo anche sulla percezione.
Nel 94% dei casi hanno risposto lavoratrici/lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, dei quali il 73% svolge un lavoro impiegatizio, 20% quadro o funzionario, 2% dirigente.
L’82% ha cominciato a lavorare da casa solo con l’emergenza, di questi il 31,5% avrebbe desiderato farlo anche prima. Si registra una prevalenza delle donne (+10% rispetto agli uomini) e del settore pubblico (+15% rispetto al privato).
Il 18% aveva cominciato prima: l’8% per scelta personale (soprattutto gli uomini); il 5% per scelta del datore; un altro 5% per esigenze di conciliazione.
Nel 37% dei casi è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro. Nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro. Nel 27% dei casi in modo negoziato attraverso un intervento del sindacato.
Per quanto riguarda i livelli di informazione e competenze di queste figure, rileviamo che il 61% conosceva la normativa di riferimento e anche gli aspetti di salute e sicurezza (57%).
Dato il contesto, sarebbe forse più corretto parlare di “home working” perché molte persone sono state semplicemente “catapultate” dentro le loro case da un giorno all’altro.
Venendo agli elementi di criticità, direi che emerge in modo significativo il tema del diritto alla disconnessione. Per il 56% il dilungarsi degli orari di lavoro è potenzialmente un problema. C’è attenzione anche al tema della postazione e dell’area di lavoro. Il rapporto con il datore di lavoro o con il diretto responsabile per la maggioranza (67%) è invece rimasto pressoché invariato. Per il 51% anche i carichi di lavoro sono rimasti gli stessi.
Nel campione di riferimento la maggior parte aveva una connessione adeguata e il 50% ha ricavato degli spazi specifici. Questo è un altro nodo dello smart working: è evidente che la percezione più o meno positiva è fortemente legata alla presenza di un’abitazione adatta a poter usufruire di spazi personali adeguati.
È interessante anche segnalare che gli uomini risultano maggiormente dotati di strumenti tecnologici. A parte lo smartphone (il 72% delle donne ne possiede almeno uno personale), se andiamo a vedere invece tablet e pc, cominciano a esserci scostamenti significativi tra uomini e donne.
Sulla possibilità di fare smart working anche dopo l’emergenza, è emerso un livello di soddisfazione complessivamente abbastanza alto: un 64% dei lavoratori si è detto favorevole. La percezione di questa modalità di lavoro -date alcune condizioni- si rivela decisamente positiva.
Anche per quanto riguarda il bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro, la maggioranza ha risposto positivamente. Sull’organizzazione e la separazione di lavoro e tempo libero, il 59% è riuscito a organizzarsi in modo soddisfacente. Anche qui però rilevo che c’è una percentuale maggiore di uomini.
Comunque direi che nel complesso lavoratrici e lavoratori valutano quest’esperienza con favore. Non solo per gli aspetti più evidenti, cioè che fa risparmiare tempo negli spostamenti, ma anche per esempio perché rende più efficace il lavoro per obiettivi. Rispetto al rischio di essere marginalizzati nel luogo di lavoro, la risposta è abbastanza bilanciata, tra un 52% che dice no e un 48% che invece ha questa percezione. Così per il tema della solitudine. In generale serenità e preoccupazioni sono ben bilanciate.
Chiaramente quello che è piaciuto di più è il poter organizzare al meglio i diversi aspetti della vita, l’avere tempo per sé e per i familiari.
Quella che ho presentato è un’analisi parziale e senza alcun carattere scientifico. Ciò che emerge dalle varie risposte, una possibile sintesi, è che otto lavoratori su dieci chiedono di contrattare lo smart working. Ripeto, è l’analisi di uno spaccato segnato dall’improvvisazione. I lavoratori si sono sentiti catapultati dentro una dimensione inedita per i più, dove chi aveva determinate condizioni, un’abitazione adeguata, un minimo di capacità organizzativa e competenza tecnologica, ha perlopiù apprezzato questa formula. Ora ovviamente c’è molto da fare. Intanto la legge è troppo generalizzata, va assolutamente adeguata. La contrattazione deve entrare nel merito delle questioni: dei diritti sindacali e della partecipazione, della formazione, della salute e sicurezza. C’è anche il tema delle utenze domestiche che sono ovviamente aumentate.
Un’ultima nota. Il tema della condivisione e conciliazione è un tema importante, ma dobbiamo evitare di cadere nello stereotipo che vede questo strumento eminentemente per le donne, per la cura. Lo smart working è uno strumento per lavoratori e lavoratrici. Anche questo è un aspetto a cui bisogna prestare molta attenzione nel rinnovare la legislazione.
Maddalena Acquaviti,
First Cisl Milano Metropoli
Non possiamo parlare di smart working se non facciamo un distinguo fra ante e post Covid. Nel settore bancario, prima della pandemia, le esperienze di lavoro agile erano piuttosto limitate e di carattere sperimentale.
Il sindacato si era fatto sostenitore di queste iniziative all’interno delle aziende, avendo colto da subito la potenzialità di un dispositivo utile ai fini della conciliazione, da integrare con gli strumenti più tradizionali come il part time o la flessibilità di orario individuale e, tuttavia, si scontrava con le resistenze di aziende arroccate su una mentalità basata sulla presenza e sul controllo visivo delle persone. Tale ritrosia non riguardava soltanto la necessità di controllo, ma anche il rendersi conto che l’introduzione dello smart working richiedeva dei cambiamenti organizzativi che le aziende non sempre volevano mettere in atto; pur in presenza di modalità disfunzionali, cambiare uno status quo tutto sommato noto, conosciuto, veniva vissuto come problematico.
Come dicevo, lo smart working è entrato nel settore bancario in maniera piuttosto timida. I primi accordi sono stati sottoscritti nella grandi banche (Intesa, Unicredit, Bnl, ecc.), con dei primi tentativi di regolamentazione, ma anche con una serie di limitazioni nel suo utilizzo: il più delle volte questi accordi prevedevano che si potesse fare smart working al massimo un giorno a settimana. Ma poi c’erano limiti al numero di persone che potevano ricorrervi; ai luoghi, ai settori della banca in cui era possibile farlo...; era previsto qualcosa anche rispetto al diritto alla disconnessione.
In genere più di questo in quegli accordi non c’era, ma in fondo erano adeguati alla realtà di quel momento perché lo strumento era davvero in una fase embrionale.
Dal 2017, con l’introduzione della legge 81, vengono fatti alcuni passi avanti e tuttavia emerge un vulnus perché la legge prevede che l’accordo possa essere sottoscritto individualmente fra azienda e singolo lavoratore, bypassando di fatto la contrattazione collettiva. In assenza di un obbligo di accordi collettivi, laddove le relazioni industriali erano più fragili, il ricatto di fatto era: “Vuoi lo smart working? Le regole le faccio io azienda”. Molti di questi accordi individuali scaricavano così sul lavoratore tutta una serie di incombenze che invece sarebbero dovute essere in capo all’azienda; era inoltre previsto un sistema sanzionatorio per chi, per esempio, avesse problemi sulla rete e quindi non potesse collegarsi da remoto o fosse costretto a rientrare in azienda ma non fosse nelle condizioni di farlo.
Un’importante novità del nostro settore è arrivata nel dicembre del 2019 quando è stato firmato il rinnovo del contratto nazionale. Il contratto nazionale dei bancari è stato il primo a prevedere un articolato specifico sullo smart working e sul diritto alla disconnessione. Questo ha consentito di riportare al centro la contrattazione collettiva anche su questa materia. Il contratto stabilisce alcuni principi in merito, per esempio, agli obblighi formativi, alla salute e sicurezza, alla fornitura di dispositivi, demandando poi alla contrattazione di secondo livello altre materie. Siamo così tornati al tavolo delle trattative anche a livello aziendale.
Naturalmente in quel momento nessuno immaginava quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Quando un anno fa è arrivata la pandemia ha stravolto tutto.
Il settore bancario, considerato essenziale, ha garantito l’operatività anche nel periodo del lockdown più duro, cioè fra marzo e aprile del 2020. Abbiamo tutti continuato a lavorare e molti di noi sono stati messi in home working praticamente dall’oggi al domani. Unica eccezione, naturalmente, le filiali. Seppure con gli accessi contingentati, chi lavora in filiale ha dovuto presiedere fisicamente in sede, perché non era possibile fare diversamente. I palazzi e le sedi centrali si sono però praticamente svuotati. Di questo ce ne siamo accorti benissimo a Milano dove risiedono molte delle sedi centrali di banche sia nazionali che estere.
In questa prima fase, come è stato detto, sarebbe più opportuno parlare di home working perché sono venute a mancare due elementi fondamentali dello smart working. Innanzitutto la possibilità di lavorare parzialmente da casa e parzialmente dall’ufficio, ma soprattutto la volontarietà della scelta. Il Dpcm del primo marzo 2020 ha infatti introdotto la procedura semplificata, che consente all’azienda di bypassare l’accordo individuale. Oggi, a distanza di un anno, è ancora così. Noi abbiamo chiesto e ottenuto momenti di discussione e abbiamo attivato dei tavoli che pur non avendo consentito una vera e propria trattativa, speriamo abbiano aperto un strada...
In questa fase è emersa anche la richiesta di accordi che consentissero di utilizzare lo smart working come una sorta di ammortizzatore sociale per far fronte alle prime chiusure di sedi.
Uno tra i primi e più importanti cambiamenti che si sono verificati è che improvvisamente le aziende si sono innamorate dello smart working, intravedendo un’enorme possibilità di riduzione dei costi unitari. Uni Finance, il sindacato internazionale del settore dei bancari, ha stimato che il risparmio che le aziende riescono a ottenere grazie allo smart working risulta essere di circa il 5%. Il risparmio viene, per esempio, dalla chiusura o dal ridimensionamento delle sedi, dalla riduzione delle utenze, ecc. Spese che però si sono trasferite soprattutto sui lavoratori. Questo anno passato ci ha quindi permesso di apprezzare le potenzialità dello smart working, ma anche di individuarne i possibili rischi.
Quali sono allora le sfide che ci attendono da un punto di vista delle trattative nei prossimi tempi? Innanzitutto il discorso sulla volontarietà. Molti colleghi non hanno le condizioni adeguate per lavorare da casa. Ma soprattutto le esigenze di vita cambiano: quello che può risultare uno strumento utile oggi potrebbe non esserlo più in futuro, per cui lo smart working deve tornare a essere una scelta volontaria.
Ci sono poi delle attività che sono incompatibili con lo smart working. Abbiamo parlato prima per esempio delle attività di filiale. Questo può essere sopperito con altre forme. Per esempio, in alcune circostanze sono state sperimentate esperienze di smart learning, cioè la formazione fatta da casa grazie appunto allo smart working.
C’è poi un tema rispetto alla carriera e alla retribuzione. Iniziamo già a vedere dei tentativi di deregolamentazione e questo apre degli scenari preoccupanti perché naturalmente il rischio è quello di vedere una precarizzazione del lavoro che dobbiamo in tutti i modi scongiurare.
Lo smart working è soprattutto conciliazione. Attenzione, però, perché può diventare uno strumento di segregazione o, al contrario, costituire un’occasione di riequilibrio fra i generi. Va detto che lo smart working è molto apprezzato anche dagli uomini. Quindi possiamo cogliere questa possibilità...
Di nuovo si deve trovare un equilibrio fra la flessibilità e la deregolamentazione. Abbiamo già notato che alcune aziende stanno provando a svincolarsi dall’orario di lavoro, a non pagare gli straordinari. Non solo, a volte il tempo risparmiato negli spostamenti diventa tempo in più per il lavoro.
C’è da presidiare il diritto alla disconnessione come pure la questione del controllo a distanza.
C’è infine il discorso della redistribuzione: non si può pensare che il risparmio rimanga in capo alle aziende mentre l’aumento dei costi grava sui lavoratori...
L’auspicio è infine che lo smart working possa diventare un’occasione vera di coinvolgimento delle persone in quella che si prospetta come una vera rivoluzione nell’organizzazione del lavoro.
Sofia Borri, Piano C
Piano C è nato nel 2012 e dal 2013 accompagna donne di una fascia d’età dai 30 ai 55 anni che, per tanti motivi, sono fuori dal mercato del lavoro o si trovano con una qualità del lavoro fragile (contratti precari, percorsi di carriera intermittenti, sottopagati, non corrispondenti alle competenze) a rientrare a pieno titolo nel mondo del lavoro.
Nonostante Milano sia una città dove il dato dell’occupazione femminile è positivo rispetto alla media italiana, in realtà sono tantissimi i talenti femminili sprecati, invisibili; donne che spesso autorinunciano a percorsi più sfidanti dal punto di vista professionale. Ebbene, molti dei temi emersi in quest’anno di pandemia appartenevano alla nostra quotidianità già da prima. Intanto il tema dello smart working, che già avevamo intravisto come un orizzonte possibile per liberare le donne da questa guerra interiore, da questo dilemma tra vita e lavoro. Le donne che incontriamo hanno spesso fratture biografiche profonde: ho studiato, ho un’aspettativa professionale e mi ritrovo a dover rinunciare perché decido di avere una famiglia o occuparmi dei miei cari, di essere una caregiver.
Anche l’equilibrio, il disequilibrio, la sovrapposizione tra tempi di vita e di lavoro era un tema all’ordine del giorno: dov’è il confine della mia giornata di lavoro, dov’è il confine del mio essere membro della mia famiglia?
Le madri che vogliono rientrare nel mondo del lavoro trovano spesso un muro. Perché di base sono viste come meno affidabili, meno disponibili. Il tema del carico del lavoro di cura era centrale già prima della pandemia. Come faccio a ripropormi sul mondo del lavoro se ho sulle spalle l’intera cura della mia famiglia?
Questo tema è letteralmente esploso in questo periodo segnato anche dall’assenza dei servizi. Il prezzo dell’assenza dei servizi lo stanno pagando le donne e lo pagano anche quando sono in smart working entrambi, uomo e donna. Non è infatti inusuale che l’uomo si chiuda nella sua stanza come se fosse in ufficio dalle nove alle sette. Mentre alla donna resta in capo il lavoro smart, ma anche tutto il resto. Questa attitudine anche positiva di voler prenderci cura della famiglia, in un contesto di pericolo incombente come quello della pandemia, si è risvegliato in noi in maniera automatica. E poi c’è il tema dell’occupazione. Nel mondo anglosassone è in atto un dibattito sul rischio di una recessione prettamente al femminile, sia per il tipo di contratti, sia per il tipo di settori colpiti.
Venendo al tema di oggi, forse la prima domanda che ci dovremmo fare è intanto di quale smart working stiamo parlando. Tiziana Scalco ha enfatizzato il salto da cinquecentomila a otto milioni di lavoratori. Se penso alle promotrici della legge sul lavoro agile, beh, non si sarebbero mai immaginate che nel 2020 otto milioni di persone sarebbero state in smart working!
Maddalena Acquaviti ha ricordato come questo diritto di lavorare da casa fosse prima molto osteggiato dalle aziende perché voleva dire abbandonare un’organizzazione che prevedeva il controllo della presenza e un’idea della produttività commisurata alle ore trascorse in ufficio. Tutte cose che hanno sempre penalizzato le donne che poi alla riunione alle 18 non riuscivano a partecipare perché dovevano andare a prendere il figlio; che automaticamente rinunciavano a percorsi di carriera perché aliene a un certo stile di leadership e di controllo. Io mi chiedo se in questa accelerazione sia in corso anche un qualche cambiamento culturale.
Chiara Bisconti, che a Milano per prima ha portato il tema del lavoro agile, ha sempre promosso un’idea dello smart working come un “patto di libertà” tra datore di lavoro e lavoratore. Il lavoro agile non è solo lavoro da remoto, ma la possibilità di gestire in maniera autonoma tempo e spazio del lavoro. Questo è un punto cruciale.
Le potenzialità del lavoro agile vanno viste in un’ottica proprio di rigenerazione degli spazi, di un nuovo modo di stare nei luoghi di lavoro; non stiamo parlando solo del fatto di poter lavorare da casa, di trasferire il lavoro dall’ufficio alla cucina. Lo smart working non è questo e per le donne, meno che meno, è “poter lavorare da casa così mi occupo anche dei miei figli”. Perché invece durante la pandemia è stato questo.
Se però chiediamo ai lavoratori se vogliono esercitare questo patto di libertà e gestire in modo libero tempi e luoghi di lavoro, io non so quanti dicono di no. E allora la domanda diventa: quanti nel management delle aziende o dell’amministrazione pubblica sono in grado di reggere -anche in termini di cambiamento culturale- un’organizzazione del lavoro fondata su questa idea di smart working?
Si è citato il tema della solitudine, che per noi che ci occupiamo di lavoro e di non lavoro delle donne è sempre stato centrale. L’essere fuori dal mercato del lavoro spesso viene proprio percepito come una mancanza di cittadinanza. Al di là del fatto di essere più fragile, perché non hai un reddito e quindi non sei indipendente, il punto è che hai anche meno possibilità di incidere nel mondo. È il tema della partecipazione.
Solitudine è anche non avere un motivo per uscire di casa, se non quello di accompagnare i figli da qualche parte e di essere totalmente schiacciata nel ruolo di cura (bellissimo e sacrosanto, ma che non può essere il solo). Per questo noi in questi anni abbiamo lavorato tantissimo per offrire strumenti, spazi, luoghi di partecipazione per uscire da quelle case, per avere voce, per ricordarsi insomma che siamo anche altro.
Quindi sono anch’io d’accordo sul fatto che lo smart working deve rimanere comunque un’alternanza tra ufficio e casa; non certo monadi produttive ognuna a casa propria. E poi in quali case? Questo aprirebbe tutto un altro capitolo.
Detto questo, io penso che lo smart working come lavoro per obiettivi possa essere veramente rivoluzionario e possa portare vantaggi a tutti, uomini e donne. Purtroppo ho l’impressione che il dibattito di questo ultimo periodo stia un po’ perdendo questi elementi, in particolare l’aspetto del necessario cambiamento culturale che il lavoro agile porta con sé.
Un tema, quello culturale, che a questo punto riguarda anche le nostre famiglie. Che riguarda i luoghi di lavoro, ma anche il lavoro delle donne a casa. Nel momento in cui sono venuti meno gli alleati che le donne avevano nell’esercitare il proprio ruolo di cura, in primis gli anziani (che, per la loro sicurezza, non sono più stati ingaggiati come supporto quotidiano), ma poi soprattutto i servizi; ecco, nel momento in cui accade questo, io chiedo a tutti noi, in primis alle donne ma anche gli uomini, di guardare dentro casa e chiederci che modelli familiari stiamo esercitando, che rivoluzione culturale vogliamo attuare anche all’interno delle nostre famiglie per provare ad agire un riequilibrio di questi carichi di cura. Certo per le donne. Ma secondo me anche per gli uomini che forse, grazie a questo smart working forzato, stanno riscoprendo una dimensione personale, casalinga, del tempo per sé. Ecco, forse nel tempo per sé ci può essere anche il tempo di cura condiviso con l’altra metà del cielo.
Luigi Campagna, Politecnico di Milano
Presenterò un’idea, una proposta elaborata con Luciano Pero e Antonella Marsala. Noi tutti da tempo ci occupiamo di temi legati all’organizzazione del lavoro. La tesi, che vi esporrò in maniera un po’ schematica, è che dati gli scenari che si configurano anche nel post covid, e le grandi trasformazioni che ci attendono, a partire dalla digitalizzazione, il modo attuale con cui siamo organizzati è inadeguato. Quindi bisogna rimettere mano al modello dell’organizzazione del lavoro, ripensando al ruolo degli attori, con la duplice ambizione di far crescere la nostra produttività riducendo al contempo i nostri orari di lavoro. Uno slogan da lean production sarebbe: “fare di più con meno”.
Noi infatti sprechiamo molte ore. Qualcuno oggi vorrebbe farci recuperare pure le ore che si perdevano negli spostamenti reinserendole nell’orario di lavoro. Comunque, al di là di queste considerazioni, la questione è che non riusciremo a far fare un salto al paese se ci muoviamo con gli schemi tradizionali.
Quindi l’obiettivo è ridurre l’orario di lavoro, modulandolo in modo flessibile con l’obiettivo di soddisfare congiuntamente due esigenze: delle imprese e di chi lavora. Questa è l’ipotesi su cui lavoriamo da tempo e che ora provo a raccontare. Ovviamente questa modulazione dovrebbe essere accompagnata da politiche che la favoriscano.
Ora, per ottenere un lavoro che sia in grado di produrre più ricchezza da distribuire, riducendo al contempo le ore di lavoro, bisogna intervenire su più cose congiuntamente.
Il primo elemento su cui bisogna mettere le mani è proprio questo concetto per cui, aumentando le ore lavorate aumenti la produttività; una convinzione che abbiamo portato avanti anche mantenendo l’istituto dello straordinario (nonostante tutte le mitigazioni sopravvenute) come strumento ordinario per fare due cose: cercare di recuperare produttività e cercare di recuperare salario.
Bene, se vogliamo andare verso una riduzione dell’orario, il primo ingombro è costituito proprio da questo modello per cui la crescita di produzione è legata alla capacità di avere più input per fare più output. È un modello vecchio, antico, che non tiene più, perché oggi abbiamo strumenti che aumentano la produttività senza aumentare gli orari. Anzi, questi strumenti rischiano di “mangiarsi” le ore delle persone. Sto parlando della digitalizzazione incombente, di cui lo smart working è uno degli esempi minimi. A conferma di quanto questa idea non sia peregrina, ricordo un recentissimo panel degli esperti del Segretariato della Comunità europea dove nelle politiche di difesa del lavoro viene messa al primo posto proprio la riduzione dell’orario di lavoro. La proposta è di spingere gli stati europei ad arrivare a trentotto ore medie settimanali, se non a trenta. La riflessione che viene fatta è questa: a fronte della crescente capacità performativa dei sistemi è necessario cambiare il paradigma degli orari, che significa cambiare il modo di pensare l’orario complessivo: di lavoro e di vita.
Allora, tornando al discorso precedente, la prima questione è intervenire sullo straordinario, perché lo straordinario in realtà è un modo per perdere produttività non per farla crescere, per tanti motivi. È spesso volontario, è organizzato male, induce una serie di costi indotti diretti e indiretti, dà l’illusione di costare meno perché vengono meno alcuni oneri; in realtà l’ora di per sé costa meno ma la capacità produttiva di queste ore è minima, anzi possiamo dire che, alla crescita di input costituita dallo straordinario, non c’è una equivalente crescita di output.
Questa è quindi la prima grande manovra da fare.
La seconda grande manovra è, come dicevo, quella di ripensare l’orario, modulandolo, cioè rendendolo flessibile. Occorre abbandonare uno schema fondato sulla continuità per adottarne uno adeguato ai picchi e ai flessi che l’orario può avere. Quindi dobbiamo ridurre l’orario ma anche incentivare forme di part time calibrati, per esempio, sulle sei ore; intervento che aiuterebbe a ripensare i sistemi organizzativi in modo conciliabile.
E per “conciliabile” qui intendo per tutti i lavoratori, non solo per le donne.
Ridurre l’orario vuol dire anche offrire occasioni di lavoro a più persone, un obiettivo di una certa rilevanza, vista anche la crisi che abbiamo all’orizzonte.
La terza manovra, collegata a questo ripensamento dell’orario, è un intervento sul salario. Anche qui abbiamo qualche esperienza recente. Il contratto Luxottica ha trasformato il lavoro precario di un migliaio di persone in un lavoro stabilizzato, con un part time di sei ore in cui il salario base viene integrato con un salario di produttività che rende comparabile la retribuzione a sei ore con quella a otto.
Ecco, lo schema su cui pensiamo si possa intervenire combina fattori organizzativi e produttivi in modo che, riducendo il carico individuale, si possa ridistribuire questo orario fra più persone, con un match win-win tra azienda e lavoratori. Negli interventi precedenti è stata messa in evidenza la difficoltà delle imprese di accettare che lavoratori e rappresentanze possano intervenire su questo tema. L’esempio bancario è emblematico: è l’ambiente in cui questo tema è stato usato più come una leva in mano agli uffici di gestione delle risorse che come oggetto della contrattazione stessa. Ripensare lo schema delle politiche del lavoro in questa direzione ci permetterebbe di recuperare anche quegli spazi di negoziazione e di contrattazione che sono custoditi con molta gelosia dall’azienda. In primis, appunto, l’orario di lavoro.
Su questo esistono già esperienze molto interessanti, anche nel nostro paese, oltre a questo forte orientamento dell’Europa che citavo prima. La riduzione dell’orario di lavoro, tra l’altro, apre fronti importanti sulla questione della formazione, che dovrà necessariamente accompagnare questa fase. Una rimodulazione delle ore di lavoro potrebbe prevedere ad esempio un uso dei tempi del lavoro come tempi della formazione.
In questo quadro, la formazione continua (altra grande politica su cui dovremo muoverci) diventerebbe non solo quel diritto soggettivo di cui alcuni contratti già parlano, ma una delle pratiche oggettive di un nuovo modo di intendere il lavoro. Le giornate di lavoro organizzate secondo questi schemi potrebbero prevedere strutturalmente dei momenti di formazione che potrebbero essere in parte a carico dell’impresa e in parte a carico del lavoratore.
L’orario va visto non solo come una leva di natura contrattuale, ma come una vera leva progettuale. Essendo una leva progettuale può offrire, assieme allo spazio, modi di organizzare il lavoro diversi da quelli che conosciamo e che possono essere facilmente integrabili con altre leve, come quelle tecnologiche di tipo digitale.
Oggi i sistemi produttivi non hanno più bisogno del grande fabbisogno di ore dell’orario ottocentesco, quello nella settimana di quaranta ore. Le ore diminuiscono e queste ore diminuite possono essere sopportate dal sistema produttivo perché aumenta la produttività. Non solo: possono essere in parte redistribuite attraverso forme mixate di full time e di part time. A loro volta questi full time e questi part time possono essere sostenuti da politiche attive che aiutino la compensazione del salario perduto (rispetto alle otto ore tradizionali) con forme di produttività aggiuntiva.
Cristina Tajani, assessore al Lavoro del Comune di Milano
Gli interventi che ho ascoltato sono stati molto interessanti e hanno anticipato alcune mie riflessioni. Questo shock tecnologico che la pandemia ha imposto ha di fatto accelerato dei processi già in corso. Io qui vedo lo smart working all’interno di un duplice movimento.
Il primo movimento è quello che agisce dentro le organizzazioni ed è stato richiamato dagli interventi delle sindacaliste. L’altro movimento è quello che agisce sul territorio e quindi sull’organizzazione delle città e dei rapporti tra città e aree circostanti.
Sulla prima sponda, la rivoluzione dentro le organizzazioni era già in corso: tecnologia e digitalizzazione avevano già operato delle trasformazioni. La pandemia ha dato una scossa di natura organizzativa e si auspica anche di natura redistributiva.
Nel Comune di Milano, che conta 15.000 dipendenti, quindi è una grande azienda del territorio, noi tutti, che pur eravamo abituati, allenati, avevamo delle procedure sul lavoro agile ben prima del febbraio 2020, abbiamo vissuto una grande trasformazione perché siamo passati da trecento lavoratori in lavoro agile a gennaio 2020 a ottomila a maggio.
Anche noi abbiamo voluto sondare con un’indagine interna nei mesi del primo lockdown gli umori e le sensazioni e anche le indicazioni dei nostri lavoratori. Non riprendo i dati di quella survey perché sono convergenti con quelli che sono stati presentati da Tiziana Scalco. Il dettaglio dei dati è stato pubblicato su un articolo a mia firma sulla rivista web de “Il Mulino” (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5280).
Nella sostanza, i lavoratori mostrano di apprezzare questo cambiamento, di volerlo continuare dopo la fine della crisi sanitaria, ma indicano delle prospettive di miglioramento e delle criticità: in particolare, il diritto alla disconnessione, la questione degli spazi, la questione della redistribuzione del valore che viene liberato attraverso il crollo degli straordinari...
Noi, come ente, con il lavoro in smart working abbiamo risparmiato diversi milioni di straordinari. Perché nelle giornate di lavoro agile si lavora a progetto, a obiettivo e quindi il tempo non è quello che si trascorre in ufficio o timbrando il cartellino. Bene, quel valore andrà ridistribuito, io credo; così come andrà ridistribuito il valore che si libera in un processo di medio e lungo periodo nella riorganizzazione delle sedi.
Va aperta una nuova stagione di contrattazione collettiva a livello nazionale e a livello decentrato che sia in grado di aggiustare anche le disfunzionalità del lavoro agile straordinario o emergenziale o home working che abbiamo vissuto in questi mesi sul lato organizzativo. Quindi procedure migliori, diritto alla disconnessione, protezione dei dati, sicurezza, ma anche redistribuzione del valore economico. Noi abbiamo aperto poche settimane fa il confronto con le organizzazioni sindacali all’interno del Comune di Milano sul contratto di secondo livello decentrato. Bene, la redistribuzione di questo valore liberato è uno dei temi centrali. Qui, oltre alle proposte già in campo, si possono immaginare anche nuovi strumenti di welfare aziendale o welfare di territorio.
Sicuramente la legge dal 2017 può subire delle revisioni, può essere adeguata rispetto ai tempi; era stata pensata in un contesto diverso, dove il lavoro agile era più che altro una sperimentazione. Però io credo che il grosso del riaggiustamento andrà fatto per via contrattuale.
Il secondo punto, a mio avviso centrale, sono le conseguenze che questo cambiamento ha sul territorio. Anche qui il contesto è stato descritto: svuotamento dei centri storici, dei centri direzionali, impatto economico sul tessuto produttivo di un contesto dove il lavoro non è più concentrato ma si disperde sul territorio.
Conseguenze che in alcuni casi sono anche positive. Mentre infatti assistevamo allo svuotamento delle attività economiche delle aree centrali, abbiamo visto una certa rivitalizzazione delle attività commerciali di vicinato nelle aree residenziali. Torna qui un’idea di città che non ha più soltanto le aree residenziali o addirittura “dormitorio” dove si torna alla sera, e poi quelle dove si vive ogni giorno. Si apre la possibilità di ricombinare funzioni abitative e funzioni lavorative. È la cosiddetta “città dei quindici minuti”, dove i servizi sono a portata di tutti in tutte le aree.
L’idea che ha lanciato e che sta sperimentando il Comune di Milano sul cosiddetto “near working” (una locuzione che ci siamo inventati in maniera un po’ scherzosa in assonanza con lo smart working) ha proprio lo scopo di sperimentare un modello di lavoro che noi applichiamo all’ente, ma che può essere esportato anche su altre realtà del territorio. Anche questo è stato detto: noi non immaginiamo che la settimana lavorativa venga trascorsa interamente fuori dall’ufficio. La prospettiva non può che essere quella di un’alternanza. Bene, le giornate di smart working non devono essere trascorse necessariamente in casa; si può lavorare anche in altri spazi vicini adeguatamente attrezzati, che possono essere spazi comunali nelle sedi decentrate (municipi, biblioteche), ma anche spazi di coworking accreditati. Possono essere anche sedi aziendali che hanno spazi sotto utilizzati in aree al confine della città di Milano, verso l’area metropolitana.
È un modello sperimentale. Noi ci avviamo a utilizzarlo adesso per la prima volta, però può suggerire un’idea di lavoro diffuso sul territorio, almeno in alcune giornate lavorative e, al contempo, un’idea di città in cui non necessariamente bisogna spostarsi tutti alla stessa ora alla mattina e tornare a casa tutti alla stessa ora alla sera, in cui il tema di un nuovo piano dei tempi diventa di nuovo attuale.
L’emergenza sanitaria ci ha costretto ad alleggerire i mezzi pubblici e quindi ad attuare un piano straordinario dei tempi della città , cosa che non si faceva da tanti anni. Ecco, pur in questa situazione di emergenza dal punto di vista sanitario, sociale ed economico, forse possiamo comunque provare a fare un ragionamento su cosa abbiamo imparato durante questa crisi come città, come aziende, come enti pubblici, per farne patrimonio comunque.
Dal mio punto di vista, questa riflessione dovrebbe andare oggi in queste due direzioni: da una parte, una nuova stagione di contrattazione collettiva; dall’altra la sperimentazione di politiche per una città a quindici minuti che valorizzi l’antica idea della città policentrica.
(a cura di Barbara Bertoncin, hanno collaborato Anna Ponzellini e Sandro Antoniazzi)
www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2020/05/Indagine_Cgil-Fdv_Smart_working.pdf.
Demos Milano è un’associazione sociale, culturale e politica. La sfida che si propone è quella di tenere strettamente uniti questi tre aspetti: partire dalla gente, dalle persone, dagli ambienti per realizzare un’azione sociale che sia costantemente pensata e riflettuta, in modo da poterla riportare in modo compiuto a livello politico. È stata avviata da persone e associazioni dell’area cattolico sociale, ma è decisamente aperta, in quanto le attività politiche e sociali sono realtà condivise da tutti. Non richiede iscrizioni: l’adesione è adesione morale che avviene per comunanza di idee e per una motivazione che abbia a cuore la vita della collettività.
Il lavoro -così precario e marginalizzato oggi- costituisce uno dei nostri interessi prioritari; e dunque la dignità del lavoro, la partecipazione, la cura, l’elevazione della conoscenza dei lavoratori fanno parte dei nostri principali obiettivi. (milano@democraziasolidale.it)
Tiziana Scalco, Fillea Cgil Lombardia
Grazie di questo invito che mi dà l’opportunità di parlare di lavoro, ma soprattutto di uno strumento nuovo su cui si è molto dibattuto in questi mesi. Esporrò i risultati di una ricerca sullo smart working condotta da Cgil e Fondazione Di Vittorio tra aprile e maggio del 2020 ma che ritengo ancora molto attuale.
Il primo dato da segnalare è che prima della crisi lavoravano da remoto circa cinquecentomila persone. Al momento della ricerca se ne calcolavano circa otto milioni!
L’indagine è stata condotta su un campione di 6.170 persone in varie aree geografiche, in parte nel pubblico e in parte nel privato. Sono state fatte 53 domande che riguardavano sia l’area professionale che quella privata, quindi l’abitazione, l’area della cura in generale, il tempo della conciliazione e infine le percezioni di queste persone che si sono viste catapultate nel lavoro a casa.
Il 65% del campione è donna; il 35% è uomo; la fascia d’età si situa tra i 35 e 64 anni, con una prevalenza dell’arco tra i 35 e i 45 anni. Il livello d’istruzione vede principalmente diplomati e laureati.
Il 54% degli intervistati vive in capoluogo di provincia; il 46% in centri piccoli o medi. La maggior parte (57%) vive in un nucleo familiare composto da tre o addirittura quattro persone; solo il 29% vede due componenti. Va da sé che il sistema abitativo ha contato moltissimo anche sulla percezione.
Nel 94% dei casi hanno risposto lavoratrici/lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, dei quali il 73% svolge un lavoro impiegatizio, 20% quadro o funzionario, 2% dirigente.
L’82% ha cominciato a lavorare da casa solo con l’emergenza, di questi il 31,5% avrebbe desiderato farlo anche prima. Si registra una prevalenza delle donne (+10% rispetto agli uomini) e del settore pubblico (+15% rispetto al privato).
Il 18% aveva cominciato prima: l’8% per scelta personale (soprattutto gli uomini); il 5% per scelta del datore; un altro 5% per esigenze di conciliazione.
Nel 37% dei casi è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro. Nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro. Nel 27% dei casi in modo negoziato attraverso un intervento del sindacato.
Per quanto riguarda i livelli di informazione e competenze di queste figure, rileviamo che il 61% conosceva la normativa di riferimento e anche gli aspetti di salute e sicurezza (57%).
Dato il contesto, sarebbe forse più corretto parlare di “home working” perché molte persone sono state semplicemente “catapultate” dentro le loro case da un giorno all’altro.
Venendo agli elementi di criticità, direi che emerge in modo significativo il tema del diritto alla disconnessione. Per il 56% il dilungarsi degli orari di lavoro è potenzialmente un problema. C’è attenzione anche al tema della postazione e dell’area di lavoro. Il rapporto con il datore di lavoro o con il diretto responsabile per la maggioranza (67%) è invece rimasto pressoché invariato. Per il 51% anche i carichi di lavoro sono rimasti gli stessi.
Nel campione di riferimento la maggior parte aveva una connessione adeguata e il 50% ha ricavato degli spazi specifici. Questo è un altro nodo dello smart working: è evidente che la percezione più o meno positiva è fortemente legata alla presenza di un’abitazione adatta a poter usufruire di spazi personali adeguati.
È interessante anche segnalare che gli uomini risultano maggiormente dotati di strumenti tecnologici. A parte lo smartphone (il 72% delle donne ne possiede almeno uno personale), se andiamo a vedere invece tablet e pc, cominciano a esserci scostamenti significativi tra uomini e donne.
Sulla possibilità di fare smart working anche dopo l’emergenza, è emerso un livello di soddisfazione complessivamente abbastanza alto: un 64% dei lavoratori si è detto favorevole. La percezione di questa modalità di lavoro -date alcune condizioni- si rivela decisamente positiva.
Anche per quanto riguarda il bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro, la maggioranza ha risposto positivamente. Sull’organizzazione e la separazione di lavoro e tempo libero, il 59% è riuscito a organizzarsi in modo soddisfacente. Anche qui però rilevo che c’è una percentuale maggiore di uomini.
Comunque direi che nel complesso lavoratrici e lavoratori valutano quest’esperienza con favore. Non solo per gli aspetti più evidenti, cioè che fa risparmiare tempo negli spostamenti, ma anche per esempio perché rende più efficace il lavoro per obiettivi. Rispetto al rischio di essere marginalizzati nel luogo di lavoro, la risposta è abbastanza bilanciata, tra un 52% che dice no e un 48% che invece ha questa percezione. Così per il tema della solitudine. In generale serenità e preoccupazioni sono ben bilanciate.
Chiaramente quello che è piaciuto di più è il poter organizzare al meglio i diversi aspetti della vita, l’avere tempo per sé e per i familiari.
Quella che ho presentato è un’analisi parziale e senza alcun carattere scientifico. Ciò che emerge dalle varie risposte, una possibile sintesi, è che otto lavoratori su dieci chiedono di contrattare lo smart working. Ripeto, è l’analisi di uno spaccato segnato dall’improvvisazione. I lavoratori si sono sentiti catapultati dentro una dimensione inedita per i più, dove chi aveva determinate condizioni, un’abitazione adeguata, un minimo di capacità organizzativa e competenza tecnologica, ha perlopiù apprezzato questa formula. Ora ovviamente c’è molto da fare. Intanto la legge è troppo generalizzata, va assolutamente adeguata. La contrattazione deve entrare nel merito delle questioni: dei diritti sindacali e della partecipazione, della formazione, della salute e sicurezza. C’è anche il tema delle utenze domestiche che sono ovviamente aumentate.
Un’ultima nota. Il tema della condivisione e conciliazione è un tema importante, ma dobbiamo evitare di cadere nello stereotipo che vede questo strumento eminentemente per le donne, per la cura. Lo smart working è uno strumento per lavoratori e lavoratrici. Anche questo è un aspetto a cui bisogna prestare molta attenzione nel rinnovare la legislazione.
Maddalena Acquaviti,
First Cisl Milano Metropoli
Non possiamo parlare di smart working se non facciamo un distinguo fra ante e post Covid. Nel settore bancario, prima della pandemia, le esperienze di lavoro agile erano piuttosto limitate e di carattere sperimentale.
Il sindacato si era fatto sostenitore di queste iniziative all’interno delle aziende, avendo colto da subito la potenzialità di un dispositivo utile ai fini della conciliazione, da integrare con gli strumenti più tradizionali come il part time o la flessibilità di orario individuale e, tuttavia, si scontrava con le resistenze di aziende arroccate su una mentalità basata sulla presenza e sul controllo visivo delle persone. Tale ritrosia non riguardava soltanto la necessità di controllo, ma anche il rendersi conto che l’introduzione dello smart working richiedeva dei cambiamenti organizzativi che le aziende non sempre volevano mettere in atto; pur in presenza di modalità disfunzionali, cambiare uno status quo tutto sommato noto, conosciuto, veniva vissuto come problematico.
Come dicevo, lo smart working è entrato nel settore bancario in maniera piuttosto timida. I primi accordi sono stati sottoscritti nella grandi banche (Intesa, Unicredit, Bnl, ecc.), con dei primi tentativi di regolamentazione, ma anche con una serie di limitazioni nel suo utilizzo: il più delle volte questi accordi prevedevano che si potesse fare smart working al massimo un giorno a settimana. Ma poi c’erano limiti al numero di persone che potevano ricorrervi; ai luoghi, ai settori della banca in cui era possibile farlo...; era previsto qualcosa anche rispetto al diritto alla disconnessione.
In genere più di questo in quegli accordi non c’era, ma in fondo erano adeguati alla realtà di quel momento perché lo strumento era davvero in una fase embrionale.
Dal 2017, con l’introduzione della legge 81, vengono fatti alcuni passi avanti e tuttavia emerge un vulnus perché la legge prevede che l’accordo possa essere sottoscritto individualmente fra azienda e singolo lavoratore, bypassando di fatto la contrattazione collettiva. In assenza di un obbligo di accordi collettivi, laddove le relazioni industriali erano più fragili, il ricatto di fatto era: “Vuoi lo smart working? Le regole le faccio io azienda”. Molti di questi accordi individuali scaricavano così sul lavoratore tutta una serie di incombenze che invece sarebbero dovute essere in capo all’azienda; era inoltre previsto un sistema sanzionatorio per chi, per esempio, avesse problemi sulla rete e quindi non potesse collegarsi da remoto o fosse costretto a rientrare in azienda ma non fosse nelle condizioni di farlo.
Un’importante novità del nostro settore è arrivata nel dicembre del 2019 quando è stato firmato il rinnovo del contratto nazionale. Il contratto nazionale dei bancari è stato il primo a prevedere un articolato specifico sullo smart working e sul diritto alla disconnessione. Questo ha consentito di riportare al centro la contrattazione collettiva anche su questa materia. Il contratto stabilisce alcuni principi in merito, per esempio, agli obblighi formativi, alla salute e sicurezza, alla fornitura di dispositivi, demandando poi alla contrattazione di secondo livello altre materie. Siamo così tornati al tavolo delle trattative anche a livello aziendale.
Naturalmente in quel momento nessuno immaginava quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Quando un anno fa è arrivata la pandemia ha stravolto tutto.
Il settore bancario, considerato essenziale, ha garantito l’operatività anche nel periodo del lockdown più duro, cioè fra marzo e aprile del 2020. Abbiamo tutti continuato a lavorare e molti di noi sono stati messi in home working praticamente dall’oggi al domani. Unica eccezione, naturalmente, le filiali. Seppure con gli accessi contingentati, chi lavora in filiale ha dovuto presiedere fisicamente in sede, perché non era possibile fare diversamente. I palazzi e le sedi centrali si sono però praticamente svuotati. Di questo ce ne siamo accorti benissimo a Milano dove risiedono molte delle sedi centrali di banche sia nazionali che estere.
In questa prima fase, come è stato detto, sarebbe più opportuno parlare di home working perché sono venute a mancare due elementi fondamentali dello smart working. Innanzitutto la possibilità di lavorare parzialmente da casa e parzialmente dall’ufficio, ma soprattutto la volontarietà della scelta. Il Dpcm del primo marzo 2020 ha infatti introdotto la procedura semplificata, che consente all’azienda di bypassare l’accordo individuale. Oggi, a distanza di un anno, è ancora così. Noi abbiamo chiesto e ottenuto momenti di discussione e abbiamo attivato dei tavoli che pur non avendo consentito una vera e propria trattativa, speriamo abbiano aperto un strada...
In questa fase è emersa anche la richiesta di accordi che consentissero di utilizzare lo smart working come una sorta di ammortizzatore sociale per far fronte alle prime chiusure di sedi.
Uno tra i primi e più importanti cambiamenti che si sono verificati è che improvvisamente le aziende si sono innamorate dello smart working, intravedendo un’enorme possibilità di riduzione dei costi unitari. Uni Finance, il sindacato internazionale del settore dei bancari, ha stimato che il risparmio che le aziende riescono a ottenere grazie allo smart working risulta essere di circa il 5%. Il risparmio viene, per esempio, dalla chiusura o dal ridimensionamento delle sedi, dalla riduzione delle utenze, ecc. Spese che però si sono trasferite soprattutto sui lavoratori. Questo anno passato ci ha quindi permesso di apprezzare le potenzialità dello smart working, ma anche di individuarne i possibili rischi.
Quali sono allora le sfide che ci attendono da un punto di vista delle trattative nei prossimi tempi? Innanzitutto il discorso sulla volontarietà. Molti colleghi non hanno le condizioni adeguate per lavorare da casa. Ma soprattutto le esigenze di vita cambiano: quello che può risultare uno strumento utile oggi potrebbe non esserlo più in futuro, per cui lo smart working deve tornare a essere una scelta volontaria.
Ci sono poi delle attività che sono incompatibili con lo smart working. Abbiamo parlato prima per esempio delle attività di filiale. Questo può essere sopperito con altre forme. Per esempio, in alcune circostanze sono state sperimentate esperienze di smart learning, cioè la formazione fatta da casa grazie appunto allo smart working.
C’è poi un tema rispetto alla carriera e alla retribuzione. Iniziamo già a vedere dei tentativi di deregolamentazione e questo apre degli scenari preoccupanti perché naturalmente il rischio è quello di vedere una precarizzazione del lavoro che dobbiamo in tutti i modi scongiurare.
Lo smart working è soprattutto conciliazione. Attenzione, però, perché può diventare uno strumento di segregazione o, al contrario, costituire un’occasione di riequilibrio fra i generi. Va detto che lo smart working è molto apprezzato anche dagli uomini. Quindi possiamo cogliere questa possibilità...
Di nuovo si deve trovare un equilibrio fra la flessibilità e la deregolamentazione. Abbiamo già notato che alcune aziende stanno provando a svincolarsi dall’orario di lavoro, a non pagare gli straordinari. Non solo, a volte il tempo risparmiato negli spostamenti diventa tempo in più per il lavoro.
C’è da presidiare il diritto alla disconnessione come pure la questione del controllo a distanza.
C’è infine il discorso della redistribuzione: non si può pensare che il risparmio rimanga in capo alle aziende mentre l’aumento dei costi grava sui lavoratori...
L’auspicio è infine che lo smart working possa diventare un’occasione vera di coinvolgimento delle persone in quella che si prospetta come una vera rivoluzione nell’organizzazione del lavoro.
Sofia Borri, Piano C
Piano C è nato nel 2012 e dal 2013 accompagna donne di una fascia d’età dai 30 ai 55 anni che, per tanti motivi, sono fuori dal mercato del lavoro o si trovano con una qualità del lavoro fragile (contratti precari, percorsi di carriera intermittenti, sottopagati, non corrispondenti alle competenze) a rientrare a pieno titolo nel mondo del lavoro.
Nonostante Milano sia una città dove il dato dell’occupazione femminile è positivo rispetto alla media italiana, in realtà sono tantissimi i talenti femminili sprecati, invisibili; donne che spesso autorinunciano a percorsi più sfidanti dal punto di vista professionale. Ebbene, molti dei temi emersi in quest’anno di pandemia appartenevano alla nostra quotidianità già da prima. Intanto il tema dello smart working, che già avevamo intravisto come un orizzonte possibile per liberare le donne da questa guerra interiore, da questo dilemma tra vita e lavoro. Le donne che incontriamo hanno spesso fratture biografiche profonde: ho studiato, ho un’aspettativa professionale e mi ritrovo a dover rinunciare perché decido di avere una famiglia o occuparmi dei miei cari, di essere una caregiver.
Anche l’equilibrio, il disequilibrio, la sovrapposizione tra tempi di vita e di lavoro era un tema all’ordine del giorno: dov’è il confine della mia giornata di lavoro, dov’è il confine del mio essere membro della mia famiglia?
Le madri che vogliono rientrare nel mondo del lavoro trovano spesso un muro. Perché di base sono viste come meno affidabili, meno disponibili. Il tema del carico del lavoro di cura era centrale già prima della pandemia. Come faccio a ripropormi sul mondo del lavoro se ho sulle spalle l’intera cura della mia famiglia?
Questo tema è letteralmente esploso in questo periodo segnato anche dall’assenza dei servizi. Il prezzo dell’assenza dei servizi lo stanno pagando le donne e lo pagano anche quando sono in smart working entrambi, uomo e donna. Non è infatti inusuale che l’uomo si chiuda nella sua stanza come se fosse in ufficio dalle nove alle sette. Mentre alla donna resta in capo il lavoro smart, ma anche tutto il resto. Questa attitudine anche positiva di voler prenderci cura della famiglia, in un contesto di pericolo incombente come quello della pandemia, si è risvegliato in noi in maniera automatica. E poi c’è il tema dell’occupazione. Nel mondo anglosassone è in atto un dibattito sul rischio di una recessione prettamente al femminile, sia per il tipo di contratti, sia per il tipo di settori colpiti.
Venendo al tema di oggi, forse la prima domanda che ci dovremmo fare è intanto di quale smart working stiamo parlando. Tiziana Scalco ha enfatizzato il salto da cinquecentomila a otto milioni di lavoratori. Se penso alle promotrici della legge sul lavoro agile, beh, non si sarebbero mai immaginate che nel 2020 otto milioni di persone sarebbero state in smart working!
Maddalena Acquaviti ha ricordato come questo diritto di lavorare da casa fosse prima molto osteggiato dalle aziende perché voleva dire abbandonare un’organizzazione che prevedeva il controllo della presenza e un’idea della produttività commisurata alle ore trascorse in ufficio. Tutte cose che hanno sempre penalizzato le donne che poi alla riunione alle 18 non riuscivano a partecipare perché dovevano andare a prendere il figlio; che automaticamente rinunciavano a percorsi di carriera perché aliene a un certo stile di leadership e di controllo. Io mi chiedo se in questa accelerazione sia in corso anche un qualche cambiamento culturale.
Chiara Bisconti, che a Milano per prima ha portato il tema del lavoro agile, ha sempre promosso un’idea dello smart working come un “patto di libertà” tra datore di lavoro e lavoratore. Il lavoro agile non è solo lavoro da remoto, ma la possibilità di gestire in maniera autonoma tempo e spazio del lavoro. Questo è un punto cruciale.
Le potenzialità del lavoro agile vanno viste in un’ottica proprio di rigenerazione degli spazi, di un nuovo modo di stare nei luoghi di lavoro; non stiamo parlando solo del fatto di poter lavorare da casa, di trasferire il lavoro dall’ufficio alla cucina. Lo smart working non è questo e per le donne, meno che meno, è “poter lavorare da casa così mi occupo anche dei miei figli”. Perché invece durante la pandemia è stato questo.
Se però chiediamo ai lavoratori se vogliono esercitare questo patto di libertà e gestire in modo libero tempi e luoghi di lavoro, io non so quanti dicono di no. E allora la domanda diventa: quanti nel management delle aziende o dell’amministrazione pubblica sono in grado di reggere -anche in termini di cambiamento culturale- un’organizzazione del lavoro fondata su questa idea di smart working?
Si è citato il tema della solitudine, che per noi che ci occupiamo di lavoro e di non lavoro delle donne è sempre stato centrale. L’essere fuori dal mercato del lavoro spesso viene proprio percepito come una mancanza di cittadinanza. Al di là del fatto di essere più fragile, perché non hai un reddito e quindi non sei indipendente, il punto è che hai anche meno possibilità di incidere nel mondo. È il tema della partecipazione.
Solitudine è anche non avere un motivo per uscire di casa, se non quello di accompagnare i figli da qualche parte e di essere totalmente schiacciata nel ruolo di cura (bellissimo e sacrosanto, ma che non può essere il solo). Per questo noi in questi anni abbiamo lavorato tantissimo per offrire strumenti, spazi, luoghi di partecipazione per uscire da quelle case, per avere voce, per ricordarsi insomma che siamo anche altro.
Quindi sono anch’io d’accordo sul fatto che lo smart working deve rimanere comunque un’alternanza tra ufficio e casa; non certo monadi produttive ognuna a casa propria. E poi in quali case? Questo aprirebbe tutto un altro capitolo.
Detto questo, io penso che lo smart working come lavoro per obiettivi possa essere veramente rivoluzionario e possa portare vantaggi a tutti, uomini e donne. Purtroppo ho l’impressione che il dibattito di questo ultimo periodo stia un po’ perdendo questi elementi, in particolare l’aspetto del necessario cambiamento culturale che il lavoro agile porta con sé.
Un tema, quello culturale, che a questo punto riguarda anche le nostre famiglie. Che riguarda i luoghi di lavoro, ma anche il lavoro delle donne a casa. Nel momento in cui sono venuti meno gli alleati che le donne avevano nell’esercitare il proprio ruolo di cura, in primis gli anziani (che, per la loro sicurezza, non sono più stati ingaggiati come supporto quotidiano), ma poi soprattutto i servizi; ecco, nel momento in cui accade questo, io chiedo a tutti noi, in primis alle donne ma anche gli uomini, di guardare dentro casa e chiederci che modelli familiari stiamo esercitando, che rivoluzione culturale vogliamo attuare anche all’interno delle nostre famiglie per provare ad agire un riequilibrio di questi carichi di cura. Certo per le donne. Ma secondo me anche per gli uomini che forse, grazie a questo smart working forzato, stanno riscoprendo una dimensione personale, casalinga, del tempo per sé. Ecco, forse nel tempo per sé ci può essere anche il tempo di cura condiviso con l’altra metà del cielo.
Luigi Campagna, Politecnico di Milano
Presenterò un’idea, una proposta elaborata con Luciano Pero e Antonella Marsala. Noi tutti da tempo ci occupiamo di temi legati all’organizzazione del lavoro. La tesi, che vi esporrò in maniera un po’ schematica, è che dati gli scenari che si configurano anche nel post covid, e le grandi trasformazioni che ci attendono, a partire dalla digitalizzazione, il modo attuale con cui siamo organizzati è inadeguato. Quindi bisogna rimettere mano al modello dell’organizzazione del lavoro, ripensando al ruolo degli attori, con la duplice ambizione di far crescere la nostra produttività riducendo al contempo i nostri orari di lavoro. Uno slogan da lean production sarebbe: “fare di più con meno”.
Noi infatti sprechiamo molte ore. Qualcuno oggi vorrebbe farci recuperare pure le ore che si perdevano negli spostamenti reinserendole nell’orario di lavoro. Comunque, al di là di queste considerazioni, la questione è che non riusciremo a far fare un salto al paese se ci muoviamo con gli schemi tradizionali.
Quindi l’obiettivo è ridurre l’orario di lavoro, modulandolo in modo flessibile con l’obiettivo di soddisfare congiuntamente due esigenze: delle imprese e di chi lavora. Questa è l’ipotesi su cui lavoriamo da tempo e che ora provo a raccontare. Ovviamente questa modulazione dovrebbe essere accompagnata da politiche che la favoriscano.
Ora, per ottenere un lavoro che sia in grado di produrre più ricchezza da distribuire, riducendo al contempo le ore di lavoro, bisogna intervenire su più cose congiuntamente.
Il primo elemento su cui bisogna mettere le mani è proprio questo concetto per cui, aumentando le ore lavorate aumenti la produttività; una convinzione che abbiamo portato avanti anche mantenendo l’istituto dello straordinario (nonostante tutte le mitigazioni sopravvenute) come strumento ordinario per fare due cose: cercare di recuperare produttività e cercare di recuperare salario.
Bene, se vogliamo andare verso una riduzione dell’orario, il primo ingombro è costituito proprio da questo modello per cui la crescita di produzione è legata alla capacità di avere più input per fare più output. È un modello vecchio, antico, che non tiene più, perché oggi abbiamo strumenti che aumentano la produttività senza aumentare gli orari. Anzi, questi strumenti rischiano di “mangiarsi” le ore delle persone. Sto parlando della digitalizzazione incombente, di cui lo smart working è uno degli esempi minimi. A conferma di quanto questa idea non sia peregrina, ricordo un recentissimo panel degli esperti del Segretariato della Comunità europea dove nelle politiche di difesa del lavoro viene messa al primo posto proprio la riduzione dell’orario di lavoro. La proposta è di spingere gli stati europei ad arrivare a trentotto ore medie settimanali, se non a trenta. La riflessione che viene fatta è questa: a fronte della crescente capacità performativa dei sistemi è necessario cambiare il paradigma degli orari, che significa cambiare il modo di pensare l’orario complessivo: di lavoro e di vita.
Allora, tornando al discorso precedente, la prima questione è intervenire sullo straordinario, perché lo straordinario in realtà è un modo per perdere produttività non per farla crescere, per tanti motivi. È spesso volontario, è organizzato male, induce una serie di costi indotti diretti e indiretti, dà l’illusione di costare meno perché vengono meno alcuni oneri; in realtà l’ora di per sé costa meno ma la capacità produttiva di queste ore è minima, anzi possiamo dire che, alla crescita di input costituita dallo straordinario, non c’è una equivalente crescita di output.
Questa è quindi la prima grande manovra da fare.
La seconda grande manovra è, come dicevo, quella di ripensare l’orario, modulandolo, cioè rendendolo flessibile. Occorre abbandonare uno schema fondato sulla continuità per adottarne uno adeguato ai picchi e ai flessi che l’orario può avere. Quindi dobbiamo ridurre l’orario ma anche incentivare forme di part time calibrati, per esempio, sulle sei ore; intervento che aiuterebbe a ripensare i sistemi organizzativi in modo conciliabile.
E per “conciliabile” qui intendo per tutti i lavoratori, non solo per le donne.
Ridurre l’orario vuol dire anche offrire occasioni di lavoro a più persone, un obiettivo di una certa rilevanza, vista anche la crisi che abbiamo all’orizzonte.
La terza manovra, collegata a questo ripensamento dell’orario, è un intervento sul salario. Anche qui abbiamo qualche esperienza recente. Il contratto Luxottica ha trasformato il lavoro precario di un migliaio di persone in un lavoro stabilizzato, con un part time di sei ore in cui il salario base viene integrato con un salario di produttività che rende comparabile la retribuzione a sei ore con quella a otto.
Ecco, lo schema su cui pensiamo si possa intervenire combina fattori organizzativi e produttivi in modo che, riducendo il carico individuale, si possa ridistribuire questo orario fra più persone, con un match win-win tra azienda e lavoratori. Negli interventi precedenti è stata messa in evidenza la difficoltà delle imprese di accettare che lavoratori e rappresentanze possano intervenire su questo tema. L’esempio bancario è emblematico: è l’ambiente in cui questo tema è stato usato più come una leva in mano agli uffici di gestione delle risorse che come oggetto della contrattazione stessa. Ripensare lo schema delle politiche del lavoro in questa direzione ci permetterebbe di recuperare anche quegli spazi di negoziazione e di contrattazione che sono custoditi con molta gelosia dall’azienda. In primis, appunto, l’orario di lavoro.
Su questo esistono già esperienze molto interessanti, anche nel nostro paese, oltre a questo forte orientamento dell’Europa che citavo prima. La riduzione dell’orario di lavoro, tra l’altro, apre fronti importanti sulla questione della formazione, che dovrà necessariamente accompagnare questa fase. Una rimodulazione delle ore di lavoro potrebbe prevedere ad esempio un uso dei tempi del lavoro come tempi della formazione.
In questo quadro, la formazione continua (altra grande politica su cui dovremo muoverci) diventerebbe non solo quel diritto soggettivo di cui alcuni contratti già parlano, ma una delle pratiche oggettive di un nuovo modo di intendere il lavoro. Le giornate di lavoro organizzate secondo questi schemi potrebbero prevedere strutturalmente dei momenti di formazione che potrebbero essere in parte a carico dell’impresa e in parte a carico del lavoratore.
L’orario va visto non solo come una leva di natura contrattuale, ma come una vera leva progettuale. Essendo una leva progettuale può offrire, assieme allo spazio, modi di organizzare il lavoro diversi da quelli che conosciamo e che possono essere facilmente integrabili con altre leve, come quelle tecnologiche di tipo digitale.
Oggi i sistemi produttivi non hanno più bisogno del grande fabbisogno di ore dell’orario ottocentesco, quello nella settimana di quaranta ore. Le ore diminuiscono e queste ore diminuite possono essere sopportate dal sistema produttivo perché aumenta la produttività. Non solo: possono essere in parte redistribuite attraverso forme mixate di full time e di part time. A loro volta questi full time e questi part time possono essere sostenuti da politiche attive che aiutino la compensazione del salario perduto (rispetto alle otto ore tradizionali) con forme di produttività aggiuntiva.
Cristina Tajani, assessore al Lavoro del Comune di Milano
Gli interventi che ho ascoltato sono stati molto interessanti e hanno anticipato alcune mie riflessioni. Questo shock tecnologico che la pandemia ha imposto ha di fatto accelerato dei processi già in corso. Io qui vedo lo smart working all’interno di un duplice movimento.
Il primo movimento è quello che agisce dentro le organizzazioni ed è stato richiamato dagli interventi delle sindacaliste. L’altro movimento è quello che agisce sul territorio e quindi sull’organizzazione delle città e dei rapporti tra città e aree circostanti.
Sulla prima sponda, la rivoluzione dentro le organizzazioni era già in corso: tecnologia e digitalizzazione avevano già operato delle trasformazioni. La pandemia ha dato una scossa di natura organizzativa e si auspica anche di natura redistributiva.
Nel Comune di Milano, che conta 15.000 dipendenti, quindi è una grande azienda del territorio, noi tutti, che pur eravamo abituati, allenati, avevamo delle procedure sul lavoro agile ben prima del febbraio 2020, abbiamo vissuto una grande trasformazione perché siamo passati da trecento lavoratori in lavoro agile a gennaio 2020 a ottomila a maggio.
Anche noi abbiamo voluto sondare con un’indagine interna nei mesi del primo lockdown gli umori e le sensazioni e anche le indicazioni dei nostri lavoratori. Non riprendo i dati di quella survey perché sono convergenti con quelli che sono stati presentati da Tiziana Scalco. Il dettaglio dei dati è stato pubblicato su un articolo a mia firma sulla rivista web de “Il Mulino” (https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5280).
Nella sostanza, i lavoratori mostrano di apprezzare questo cambiamento, di volerlo continuare dopo la fine della crisi sanitaria, ma indicano delle prospettive di miglioramento e delle criticità: in particolare, il diritto alla disconnessione, la questione degli spazi, la questione della redistribuzione del valore che viene liberato attraverso il crollo degli straordinari...
Noi, come ente, con il lavoro in smart working abbiamo risparmiato diversi milioni di straordinari. Perché nelle giornate di lavoro agile si lavora a progetto, a obiettivo e quindi il tempo non è quello che si trascorre in ufficio o timbrando il cartellino. Bene, quel valore andrà ridistribuito, io credo; così come andrà ridistribuito il valore che si libera in un processo di medio e lungo periodo nella riorganizzazione delle sedi.
Va aperta una nuova stagione di contrattazione collettiva a livello nazionale e a livello decentrato che sia in grado di aggiustare anche le disfunzionalità del lavoro agile straordinario o emergenziale o home working che abbiamo vissuto in questi mesi sul lato organizzativo. Quindi procedure migliori, diritto alla disconnessione, protezione dei dati, sicurezza, ma anche redistribuzione del valore economico. Noi abbiamo aperto poche settimane fa il confronto con le organizzazioni sindacali all’interno del Comune di Milano sul contratto di secondo livello decentrato. Bene, la redistribuzione di questo valore liberato è uno dei temi centrali. Qui, oltre alle proposte già in campo, si possono immaginare anche nuovi strumenti di welfare aziendale o welfare di territorio.
Sicuramente la legge dal 2017 può subire delle revisioni, può essere adeguata rispetto ai tempi; era stata pensata in un contesto diverso, dove il lavoro agile era più che altro una sperimentazione. Però io credo che il grosso del riaggiustamento andrà fatto per via contrattuale.
Il secondo punto, a mio avviso centrale, sono le conseguenze che questo cambiamento ha sul territorio. Anche qui il contesto è stato descritto: svuotamento dei centri storici, dei centri direzionali, impatto economico sul tessuto produttivo di un contesto dove il lavoro non è più concentrato ma si disperde sul territorio.
Conseguenze che in alcuni casi sono anche positive. Mentre infatti assistevamo allo svuotamento delle attività economiche delle aree centrali, abbiamo visto una certa rivitalizzazione delle attività commerciali di vicinato nelle aree residenziali. Torna qui un’idea di città che non ha più soltanto le aree residenziali o addirittura “dormitorio” dove si torna alla sera, e poi quelle dove si vive ogni giorno. Si apre la possibilità di ricombinare funzioni abitative e funzioni lavorative. È la cosiddetta “città dei quindici minuti”, dove i servizi sono a portata di tutti in tutte le aree.
L’idea che ha lanciato e che sta sperimentando il Comune di Milano sul cosiddetto “near working” (una locuzione che ci siamo inventati in maniera un po’ scherzosa in assonanza con lo smart working) ha proprio lo scopo di sperimentare un modello di lavoro che noi applichiamo all’ente, ma che può essere esportato anche su altre realtà del territorio. Anche questo è stato detto: noi non immaginiamo che la settimana lavorativa venga trascorsa interamente fuori dall’ufficio. La prospettiva non può che essere quella di un’alternanza. Bene, le giornate di smart working non devono essere trascorse necessariamente in casa; si può lavorare anche in altri spazi vicini adeguatamente attrezzati, che possono essere spazi comunali nelle sedi decentrate (municipi, biblioteche), ma anche spazi di coworking accreditati. Possono essere anche sedi aziendali che hanno spazi sotto utilizzati in aree al confine della città di Milano, verso l’area metropolitana.
È un modello sperimentale. Noi ci avviamo a utilizzarlo adesso per la prima volta, però può suggerire un’idea di lavoro diffuso sul territorio, almeno in alcune giornate lavorative e, al contempo, un’idea di città in cui non necessariamente bisogna spostarsi tutti alla stessa ora alla mattina e tornare a casa tutti alla stessa ora alla sera, in cui il tema di un nuovo piano dei tempi diventa di nuovo attuale.
L’emergenza sanitaria ci ha costretto ad alleggerire i mezzi pubblici e quindi ad attuare un piano straordinario dei tempi della città , cosa che non si faceva da tanti anni. Ecco, pur in questa situazione di emergenza dal punto di vista sanitario, sociale ed economico, forse possiamo comunque provare a fare un ragionamento su cosa abbiamo imparato durante questa crisi come città, come aziende, come enti pubblici, per farne patrimonio comunque.
Dal mio punto di vista, questa riflessione dovrebbe andare oggi in queste due direzioni: da una parte, una nuova stagione di contrattazione collettiva; dall’altra la sperimentazione di politiche per una città a quindici minuti che valorizzi l’antica idea della città policentrica.
(a cura di Barbara Bertoncin, hanno collaborato Anna Ponzellini e Sandro Antoniazzi)
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