L’arrivo della pandemia ha rimesso in discussione il destino delle città e in particolare delle metropoli. Intanto volevo chiederle cosa ricorda delle prime settimane dell’emergenza: come vi siete dovuti riorganizzare?
Per tutti gli amministratori di grandi città è stata sicuramente una grande sfida, perché al di là delle indicazioni governative c’è stato un tema di gestione e di applicazione delle norme, sia negli uffici pubblici che nella regolazione delle città, che non aveva precedenti nel passato più recente.
A marzo e aprile 2020 sono cominciati a circolare alcuni volantini o reperti storici della gestione della pandemia della Spagnola, che forse è il riferimento più vicino anche rispetto al governo di una città, di un’area urbana.
Per me personalmente, l’esposizione all’emergenza è avvenuta su due fronti. Il primo, la gestione dei quasi 15.000 dipendenti del Comune di Milano, alcuni dei quali, già a febbraio del 2020, risultavano residenti nelle prime zone rosse, nell’area di Codogno e comuni limitrofi. Da subito abbiamo avuto la necessità di gestire il rapporto di lavoro di persone “confinate” nel loro territorio. Ciò ha portato a un’applicazione molto precoce delle norme per il lavoro agile e straordinario, con il passaggio da lavoro in presenza a lavoro in remoto per un numero importante di dipendenti; il Comune di Milano è forse la più grande azienda del territorio.
Questo è stato il primo fronte. Per fortuna avevamo il precedente delle buone pratiche di lavoro agile (non emergenziale, ma ordinario), che svolgevamo per un numero ristretto di dipendenti, circa trecento, già prima del febbraio 2020. Ecco, quella prassi ci ha aiutato a estendere questa modalità a tutti i dipendenti che potevano lavorare da remoto, rimanendo ovviamente escluse le attività che vanno fatte obbligatoriamente in presenza, come gli addetti alla sicurezza urbana, i vigili, la manutenzione delle strade, la protezione civile, ecc.
Il secondo fronte ha riguardato i rapporti con le attività economiche e commerciali che man mano venivano chiuse o limitate dai vari dpcm governativi. Essendo il Comune l’ente più vicino alle imprese e ai cittadini, tutte le domande di chiarimento, di interpretazione avanzate da esercizi commerciali, ristorazione e bar, ma anche negozi, ci hanno costantemente impegnato.
In concomitanza con la chiusura del centro di Milano, il confinamento ha avuto come effetto inatteso la rivitalizzazione delle piccole attività commerciali di vicinato, specie nei quartieri più periferici, un fatto che apre a delle riflessioni...
La pandemia ha fatto da catalizzatore a tutta una serie di processi, alcuni positivi, altri negativi. Volendo soffermarci sui lati positivi, il lockdown ha accelerato dinamiche che non soltanto la città di Milano, ma credo un po’ tutte le città italiane ed europee da tempo stavano incoraggiando anche con specifiche politiche. Mi riferisco al tema della cosiddetta città policentrica, che rappresenta un’inversione di tendenza rispetto a un’idea di città in cui ci sono dei luoghi dove si dorme soltanto e dei luoghi dove si lavora soltanto, costringendo flussi importanti di persone, di lavoratori e di lavoratrici a spostarsi quotidianamente. Grazie a un cambiamento dell’organizzazione del lavoro e della produzione in termini generali, e mettendo in campo una serie di politiche pubbliche a livello territoriale, si può lavorare nella direzione di un maggior policentrismo delle città, che significa integrazione di funzioni abitative con funzioni lavorative e con funzioni commerciali, nell’ambito della dimensione del quartiere. La pandemia, nei mesi passati, ha costretto le persone a permanere nel luogo in cui abitano e dormono, invece di pendolare quotidianamente, facendo loro riscoprire anche una dimensione del commercio di prossimità che noi abbiamo sempre ritenuto essere un valore.
In realtà, già da alcuni anni vi era una tendenza alla riscoperta di attività di prossimità in luogo dei grandi centri commerciali esplosi in molte aree urbane negli anni Ottanta e Novanta. Da quasi u ...[continua]
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