Wendy Brown è docente della Fondazione Ups presso l’Institute for Advanced Study in Princeton.  La sua pubblicazione più recente è Nihilistic Times (Belknap Press, 2023). Al momento sta lavorando a un libro provvisoriamente intitolato Reparative Democracy: A Vision for the Twenty-First Century.

Non esiste un solo tipo di elettore di Trump. Sicuramente ci sono i nazisti, l’alt-right, gli iper-misogini e i razzisti accaniti -tutta gente che si crogiola nelle assurde promesse di Trump, nei suoi insulti al vetriolo e nei suoi modi rozzi. Ci sono coloro che sono animati dall’odio per i “libs” [termine spregiativo per gli elettori progressisti, NdT], e ogni giorno si nutrono del disprezzo o dell’indifferenza che questi esprimono nei loro confronti. Ci sono cristiani, sionisti e persino (novità degli ultimi tempi) musulmani che sperano che Trump renda alla loro causa più giustizia di quanto fatto dalla passata amministrazione Biden-Harris. Ci sono coloro che vogliono fortificare il confine meridionale del Paese e la deportazione di tutti gli immigrati più recenti. Ci sono piccoli imprenditori che sperano nei tagli alle tasse e in un minor numero di restrizioni al commercio ed ex operai del settore minerario e industriali che sperano di ottenere posti di lavoro con paghe all’altezza di quelli protetti da accordi sindacali.
Nessuna di queste categorie, però, è in grado di spiegare lo storico trionfo del prossimo presidente -il primo repubblicano a vincere il voto popolare sin dal 2004. Cosa, allora, può spiegarlo? Tre cose: il populismo di Trump, in un contesto in cui i Democratici sono sempre più assurti al ruolo di “partito dell’élite”; la stanchezza nei confronti della democrazia liberale, che porta a non ritenerla più una forma praticabile o affidabile; infine, la devastazione dell’istruzione negli Stati Uniti, specialmente di quella superiore.

Il populismo economico
Trump porta avanti una politica economica anti-establishment sin dal 2015. Alcuni la definiscono “populismo economico”. Magari non sarà sincero -alla fine, può contare su un ingente sostegno da parte del capitale e della parte più ricca della popolazione- ma con quel discorso è in grado di parlare delle diseguaglianze sempre più estreme in aumento in tutto il Paese. Naturalmente, queste diseguaglianze si devono a pratiche neo-liberal quali il ricorso all’off-shore, all’outsourcing e alle pratiche anti-sindacali, la speculazione edilizia -che ha fatto schizzare alle stelle il costo delle case- e la privatizzazione delle infrastrutture, dai trasporti all’istruzione superiore. Trump riesce a parlare direttamente a quella rabbia e a quel senso di deprivazione provato dalle famiglie operaie e della middle-class, famiglie che non riescono più a permettersi il costo della vita né a vedere un futuro migliore per la propria prole.
Harris ha fatto poco per affrontare questo problema, dicendo qualcosa solo all’inizio della sua campagna, quando ha promesso che avrebbe posto fine alla speculazione sui prezzi e offerto piccoli sussidi agli acquirenti di  case. Ma sin dall’epoca della presidenza Clinton, il Partito Democratico è sempre stato il partito degli istruiti e dei (conseguentemente) benestanti, un partito allineato sul mantenere lo status quo, anche se in seguito l’Obamacare e l’Inflation Reduction Act hanno fatto avanzare nuove prospettive -pur sempre in quello stesso status quo. Per di più, la campagna Harris, nelle ultime settimane, ha abbandonato ogni interesse verso la politica economica, occupandosi piuttosto dell’inadeguetezza di Trump a rivestire il ruolo di presidente.

La stanchezza della democrazia liberale
Da decenni la democrazia liberale, le sue istituzioni e i suoi valori sono in via di disfacimento. Negli Stati Uniti è stata dapprima corrosa dalle ambizioni neoliberali di sostituirla del tutto con i mercati e i tecnocrati, per poi subire assalti da parte dei movimenti e dei partiti di destra e infine è stata corrotta dai tribunali. Il suo essere intrecciata indissolubilmente con il capitale è risultato sempre più evidente e, per di più, si è rivelata una forma di governo incapace di controllare i poteri globali, come la grande finanza, o di occuparsi dei problemi del mondo, quali il cambiamento climatico o le migrazioni di massa dei popoli. Come risultato, la democrazia liberale ha perso ogni credibilità e fiducia presso milioni di persone che la vedono, e in questo non si sbagliano, come un gioco “truccato” ai loro danni.
La sfacciata retorica anti-democratica di Trump non risulta particolarmente fastidiosa, né importante, per questo tipo di persone. Quello che vogliono è un manager forte che sappia amministrare la nazione, che non si inchini ad altre forze politiche o economiche e che sia capace di migliorare le loro condizioni di vita e di rispondere al senso di pericolo e precarietà che ogni essere umano assennato prova in questo Ventunesimo secolo. Se questo poi condurrà a una forma politica differente -il liberalismo autoritario-, ebbene, così sia. La campagna di Harris ha persistito nel ribadire con forza che in queste elezioni era in gioco la democrazia. Ma quanti degli elettori condividevano l’idea di democrazia promossa da Harris? Quanti, invece, la associano più con la forma distorta a cui l’ha ridotta il neoliberalismo, e cioè “mercato più libertà individuali”?

La dis-istruzione
Nel periodo post-bellico, gli Stati Uniti sono stati in grado di costruire uno dei sistemi di istruzione più democratici al mondo -un modello capace di offrire un’istruzione gratuita, accessibile e di buona qualità dapprima alla gran parte dei maschi bianchi e in seguito anche alle minoranze etniche e alle donne. A cominciare dagli anni Settanta, però, tutto ciò che rendeva valido questo sistema è finito sotto attacco: i finanziamenti pubblici sono stati ritirati, i costi sono cresciuti esponenzialmente, la dimensione delle classi è aumentata e la qualità è scesa drammaticamente. Inoltre, i curricola venivano politicizzati e poi contestati, l’istruzione “vocazionale” veniva apprezzata maggiormente della reale conoscenza del mondo e delle varie forme di pensiero, e così la destra si è rivoltata con durezza contro le università, un processo che culmina oggi con campagne d’odio dirette al “lavaggio del cervello totalitario” dell’accademia. Con il sostegno del sistema delle bolle dei social media e dei media mainstream sempre più politicizzati, questo tipo di dis-istruzione ha reso possibile la trasformazione della cittadinanza in un’entità facilmente manipolabile, ed è riuscita a far associare gli stessi istituti accademici con l’elitarismo, la ricchezza e la cultura “woke” -in una parola, con i democratici. Da tempo Trump ha scelto di coltivare “the poorly educated”, “i male istruiti”, come sua base elettorale.
Se si mettono insieme questi tre fattori si capisce quanto la campagna di Harris e con lei tutto il Partito democratico fossero fuori dal mondo, lontani dal contatto con le persone.
In effetti, tanti di coloro che l’hanno votata non l’hanno fatto perché l’avevano identificata con un simbolo di speranza, o come persona capace di rispondere alle loro preoccupazioni, ma semplicemente per arrestare l’ascesa di Trump e del fascismo. La campagna di Harris non si è occupata per nulla di quelle condizioni economiche che proprio il suo partito aveva sostenuto e reso possibili per decenni, né è stata in grado di affrontare il tema della crisi della democrazia liberale e della cittadinanza, questioni che richiedono la visione di nuova forma politica.
Il Partito repubblicano di Trump ci sta per condurre verso un’inedita tipologia di democrazia. Il Partito democratico sarà in grado di capire che è necessario proporne una alternativa? Una nuova forma democratica che sia capace di favorire il benessere dei molti e dell’intero pianeta e non, piuttosto, dei pochi e di coloro che vivono per il profitto? Una forma di governo che riesca a sbrogliare l’intreccio tra il capitale e la democrazia e sia in grado di costruire un progetto di trasformazione dello stato? Una democrazia che prenda sul serio il fatto che è nella sua natura non poter prescindere da una cittadinanza istruita, e non piuttosto da un elettorato manipolabile? Una forma politica, insomma, che sia appropriata ai poteri esistenti nel Ventunesimo secolo, ai suoi problemi e alle sue possibilità?

(Traduzione di Stefano Ignone. Articolo originale all’indirizzo: https://www.dissentmagazine.org/online_articles/a-party-out-of-touch/. Per questo articolo e quello a pagina 8 si ringraziano gli amici di “Dissent” e in particolare Nick Serpe per la gentile concessione)