Con la scadenza dei diritti d’autore, a settant’anni dalla scomparsa di George Orwell il 21 gennaio 1950, la stampa e l’editoria italiane (Sellerio, Einaudi, Bompiani, Feltrinelli, Garzanti, Fanucci, Newton Compton, Marsilio e Ferrogallico, a fumetti) si sono precipitate a pubblicare articoli, traduzioni e nuove edizioni delle sue opere, con una particolare attenzione per Animal Farm (1945) e Ninenteen Eighty-Four (1949) che anche da noi, quest’anno, hanno avuto un buon successo (secondo “Post-libri” 78.000 copie vendute nel 2020), tuttavia non confrontabili con le diffusioni negli altri grandi paesi europei. è perciò opportuno interrogarsi su cosa significhi il nostro recente interesse per i libri del polemista inglese, paragonato alla timida accoglienza che in passato ebbero in Italia le stesse opere di intenso sapore anticomunista.
Negli anni Trenta era già nota la storia di Orwell (nato nel 1903), la cui fama letteraria e politica si diffuse ancor più nel dopoguerra. Giovane funzionario di polizia dell’impero britannico in Birmania, ne uscì ben presto per dedicarsi alla scrittura orientata sul proletariato e le classi diseredate dell’asse Londra-Parigi, nella stagione in cui si precisavano le sue idee eretiche di socialista umanitario. L’esperienza che più ne aveva segnato l’orientamento politico era stata la guerra civile spagnola dove combatté nelle file dei libertari del partito trotzkista Poum, in contrasto con l’altra ala dell’antifranchismo, le brigate comuniste pilotate da Mosca. Il saggio Homage to Catalonia (London, 1938) scritto durante la guerra civile, conteneva la critica allo stalinismo osservato sul campo di battaglia, dove combattevano anche altri intellettuali non comunisti come André Malraux, Arthur Koestler, Randolfo Pacciardi, Simone Weil e Nicola Chiaromonte. Avevano tutti capito che l’antifascismo si presentava con due facce tra loro in conflitto, quella democratica socialista e libertaria e quella comunista autoritaria.
In una nota autobiografica del 1946, “Perché scrivo”, Orwell, guidato da una empirica visione della realtà fuori da ogni schema ideologico, rese espliciti i principi ispiratori della sua attività di saggista dichiarando: “Io comunque, non sono un vero romanziere”:
La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io.

Orwell di fronte alla Guerra fredda
La pubblicazione a Londra nel 1949 dell’ultimo suo libro Nineteen Eighty-Four fu, insieme ad Animal Farm uscito nel 1945, il punto di arrivo della riflessione antitotalitaria di Orwell di fronte alla Guerra fredda allora dominante in Europa e nel mondo. Con la sconfitta di Hitler le forze antinaziste del Vecchio continente si erano divise in due parti politicamente, ideologicamente e militarmente contrapposte: da un lato, a Occidente, le imperfette democrazie liberali e dall’altro, nell’Europa orientale, i regimi comunisti imposti con la violenza dai sovietici. Orwell, che non era stato tenero con la sinistra inglese e le diseguaglianze delle società capitalistiche, con i libri delle utopie negative rivolge una critica, sia pure in forma metaforica, al regime comunista di cui aveva sperimentato in Spagna il carattere autoritario.
L’universo concentrazionario previsto da 1984 -l’anno in cui si sarebbe compiuta la distopia immaginata nel 1948- è descritto nella realtà materiale e psicologica attraverso la metafora del regime sovietico esteso al mondo intero. La storia è ambientata nel futuro immaginario dello Stato di Oceania, paese governato dal partito che domina ogni aspetto della vita con l’uso dei teleschermi posti sotto il controllo del vertice impersonato dal Big Brother che nessuno ha mai visto di persona.
Con la pubblicazione di 1984, Orwell diviene uno degli intellettuali antifascisti-anticomunisti più stimati dalla sinistra liberale d’Europa insieme agli ex comunisti Ignazio Silone, Arthur Koestler, Stephen Spender e Louis Fischer. Il suo nome entra a far parte di quel pantheon antitotalitario che comprende, tra gli altri, Albert Camus di Ni victime ni bourreaux (in “Combat”, 1948) e Hannah Arendt di Origini del totalitarismo (Edizioni di Comunità, 1967).

“Il Mondo” con Benedetto Croce
Cosa accadde quando 1984 fu pubblicato in Italia, dove il 18 aprile 1948 il mondo politico si era diviso tra filo-occidentali con la Dc e i “partiti laici” (socialista democratico, repubblicano e liberale) e i filo-sovietici del Fronte popolare socialcomunista? L’Orwell di 1984 fu apprezzato e recensito solo dai laico-liberali, denigrato da Palmiro Togliatti (“una buffonata informe e noiosa”), e ignorato dall’intellighenzia vicina alla sinistra filo-comunista.
Nel 1949 il saggio fu subito segnalato da “Il Mondo”, il settimanale di politica e letteratura di Mario Pannunzio, che decise di pubblicarlo integralmente a puntate dal gennaio al maggio 1950. Alberto Moravia ne scrisse in chiave letteraria in “Terribile visione”: “Dopo Wells e Huxley, ecco Orwell: il suo romanzo 1984 è una tragica ipotesi di quello che sarà il mondo tra 45 anni: un mondo in cui allo strapotere dello Stato non fa contrappeso alcuna garanzia per il misero individuo” (17 settembre 1949). Qualche mese più tardi, intervenne Benedetto Croce con il saggio “La città del Dio Ateo” apparso sulla prima pagina del settimanale (“Il Mondo”, anno I, n.34, 8 ottobre 1949) sotto una grande foto di Stalin corredata dalla didascalia “Mosca. L’ingresso dei partigiani della pace all’ombra del Maresciallo”:
Il nuovo Stato che il romanziere inglese George Orwell immagina trionfante in tutti i continenti nel 1984, è perfettamente consapevole che il potere non è un mezzo per un fine ma è “un fine per se stesso”, e che non si stabilisce una dittatura per garantire una rivoluzione, ma “si fa una rivoluzione per stabilire una dittatura”. In questo vuoto d’ogni ideale, ideale diventa il potere per se stesso, l’ateismo si costruisce un Dio ateo.

La metafora si riferiva allo Stato totalitario sovietico di cui Orwell avvertiva l’incubo percorso dall’orrore e dall’odio che gravava sul mondo intero:
Occorre essere grati a Orwell per avere definitivamente sciolto il fittizio legame tra il comunismo e lo Stato che nacque in Russia con la rivoluzione del 1917 il quale presto si tirò dietro due imitazioni che mostrarono che si poteva distaccarlo dal comunismo: il fascismo italiano che sorse senza programma o senza un programma a cui desse sincera fede e che presto ne accettò uno dal nazionalismo; e il nazismo tedesco ben altrimenti nutrito di antiche tradizioni nazionali e ricco dei succhi venefici di un naturalistico razzismo; l’uno e l’altro totalitari di Stato.

A conclusione della recensione, Croce commentava:
Chi, come Orwell, ha guardato il mostro e non si è perso d’animo, e lo ha posto a sé, fuori di sé, a fronte di sé, oggetto di disamina e critica, ha scritto il suo libro non certo per rendergli omaggio, ma per esortare a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa, e perché non si dimentichi mai che nella attuazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana.
 
Liberali, democratici e socialisti umanitari
La campagna del “Mondo”, contemporanea al successo di 1984 in Occidente, riscuote in Italia l’attenzione di alcuni intellettuali simpatetici dell’antifascismo anticomunista caratteristico dello scrittore inglese. L’anglista Gabriele Baldini, della cerchia del “Mondo”, traduce il saggio Millenovecentoottantaquattro per Mondadori, che lo pubblica nei primi mesi del 1950 in parallelo alla diffusione sul “Mondo” a puntate. Malgrado il clamore del testo, che in piena Guerra fredda rivolge una critica circostanziata all’autoritarismo sovietico, 1984 per una decina di anni merita in Italia poche citazioni, tutte da penne estranee alla dominante cultura filo-comunista. La maggiore rivista culturale del tempo, “La Fiera letteraria” mette in pagina il 7 maggio 1950 una raccolta di articoli “Testimonianza a George Orwell” firmati da noti antifascisti e anticomunisti non italiani, Arthur Koestler, Victor S. Pritchett, Julien Symons e François Bondy; Geno Pampaloni, vicino al movimento “Comunità” di Adriano Olivetti, scrive un “Ritratto sentimentale di George Orwell” per “Il Ponte”, la rivista di ascendenza azionista di Piero Calamandrei (Le Monnier, VII, maggio 1951), intervento riprodotto dopo settant’anni dall’editore Chiarelettere; Maria Luisa Astaldi, pubblica nel giugno 1950 sulla sua rivista “George Orwell critico e saggista” (“Ulisse”, giugno 1950, n.12). Nel 1954 il socialista liberale discepolo di Carlo Rosselli, Aldo Garosci, scrive di Orwell in “Politica e morale negli Eretici del comunismo ovvero il Neomachiavellismo nel XX° Secolo”, nel quadro degli “Studi in onore di Gioele Solari” avvicinando lo scrittore inglese a Ignazio  Silone, Carlo Levi, Corrado Alvaro e agli europei Charles Plisnier, Arthur Koestler e David Rousset. Un decennio più tardi, nel 1964, il giornalista Sandro De Feo, sodale di Pannunzio, scrive di Orwell per il “Corriere della Sera”, “Tenero e forte in ogni sua parola” (18 ottobre 1964); Gino Bianco nel 1966 riprende il discorso su “La Fiera Letteraria” (24 marzo 1966) con un intervento titolato “Persistenza di Orwell” ed Elena Croce nel 1972 pubblica il saggio “George Orwell” nella rivista “Settanta” (marzo 1972).

L’invettiva di Togliatti: “Non si può essere antifascista e anticomunista”
Con il mensile “Rinascita”, Palmiro Togliatti si era dato uno strumento adatto a diffondere la “linea corretta” ai quadri del Pci e a scomunicare quegli intellettuali, specialmente antifascisti, non disposti a sottomettersi alle direttive del leader comunista. Agli albori della Guerra fredda, una questione intollerabile per l’uomo di Mosca erano gli antifascisti e i resistenti che non si adattavano al ruolo di “compagni di strada” del Pci. Per Togliatti era improponibile che degli antifascisti militanti potessero essere anche anticomunisti in nome del rifiuto d’ogni autoritarismo proprio degli intellettuali democratici, liberali, cattolici e socialisti. Già negli anni Trenta non pochi tra loro erano consapevoli di cosa fosse divenuto il regime sovietico (nel giugno 1935, a Parigi, Gaetano Salvemini l’aveva denunziato nel discorso “Non posso tacere” pronunziato al “Congresso internazionale degli scrittori antifascisti per la difesa della cultura”). Costoro ritenevano che la ragione di partito dell’unità antifascista, resasi necessaria nella guerra antinazista, non potesse più giustificare la realtà totalitaria dell’Unione Sovietica.
Fin dai primi numeri di “Rinascita”, Togliatti rivolge volgari attacchi ad azionisti non frontisti, liberali, democratici, socialisti umanisti, ed a quelle personalità della sinistra democratica che rifiutavano di considerare la resistenza al fascismo una prerogativa esclusiva comunista. Le sue invettive colpirono molte personalità di quell’orientamento: Gaetano Salvemini fu definito “una persona poco seria”, il critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti, resistente azionista, un “pigmeo della Guerra fredda”, Vittorio Gorresio “uno scarafaggio”, e così Ernesto Rossi e gli amici de “Il Mondo”, “una rivista di sedicenti liberali che raccomandano i preti e Benedetto Croce”. Gli attacchi diventavano più violenti quando si trattava di mettere sotto accusa quegli ex comunisti approdati a lidi democratici che credevano “a quel ripugnante machiavellismo che ogni comunista fallito porta con sé come una luce segreta” divenendo “guardia svizzera della cultura” al servizio del “noto agente dell’anticomunismo Ignazio Silone […] socio di Luigi Gedda”.
All’ira di Togliatti, perciò, non poteva sfuggire il messaggio di Orwell, tanto più pericoloso in quanto proveniente da un combattente antifascista del partito libertario trotzkista nella guerra civile spagnola. Scrive Togliatti alias Roderigo di Castiglia   (“Rinascita”, anno VII, n. 11-12, nov. dic. 1950) nei mesi successivi alla morte dello scrittore:
Con la pubblicazione di 1984 di Orwell [...] la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire! […] L’autore accumula con la maggiore diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti.

Roderigo insiste nel tentativo di gettare il ridicolo sul saggio accolto con successo nell’Europa occidentale:
Nel “partito” (metafora del Pcus) si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti … Il capo del partito ha i baffi neri e il suo nemico mortale la barbetta a punta,  a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie.

Conclude il leader dei comunisti italiani:
Le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell … doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana.

Nel 1984 in Italia la riscoperta di Orwell
Nei tre decenni successivi alla “scomunica” di Togliatti, il romanzo 1984 non fu mai citato in Italia da intellettuali e giornalisti vicini alla sinistra comunista. Solo in prossimità della ricorrenza dell’utopia negativa fissata nel titolo, noti scrittori e importanti case editrici di quell’area riscoprono il testo sicché compaiono alcuni scritti non più ostacolati dalle direttive comuniste. Del resto l’opera più nota di Orwell ebbe in quell’anno uno straordinario rilancio nel mondo intero: negli Stati Uniti New American library presenta una nuova edizione con prefazione di Walter Cronkite; la ristampa di Penguin Books raggiunge 220.000 copie vendute in quattro mesi e perfino la Russia rompe il silenzio con una segnalazione del libro da parte del settimanale “Novyj Mir”.
Occorre tuttavia tenere presente che nel trentennio che intercorre dal 1948 al 1984 accadono una serie di eventi che addolciscono lo scontro tra la libertà occidentale e il totalitarismo sovietico. Stalin è morto da tempo e la destalinizzazione è andata avanti seppure a singhiozzo, i gulag sovietici a lungo occultati emergono dalle nebbie dell’Urss, l’uomo di Stalin in Italia, Togliatti, e la vecchia guardia comunista hanno lasciato la direzione a leader più giovani come Enrico Berlinguer che, pur se rispettosi di Mosca, sono interessati a giocare la partita governativa del Pci. Perciò non è più un tabù per i comunisti italiani parlare di antitotalitari: per legittimarsi il Pci deve accettare una visione più europea del sistema internazionale.
Nelle università, su giornali e riviste e tra gli editori, anche a sinistra, si riparla del libro che trent’anni prima in Italia era stato segnalato dai democratici liberali. Mondadori ripubblica Millenovecentottantaquattro, il facsimile del manoscritto, a cura di Peter Davison (lo scrittore che aveva raccolto a Londra tutte le opere di Orwell in venti volumi) aggiungendo un saggio introduttivo di Umberto Eco. Nel 1979 Franco Livorsi presenta il saggio Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin; e nel 1981 l’editore Pironti edita La lotta contro il Leviatano. L’analisi dei sistemi culturali e dei conflitti tra individuo e potere nell’opera narrativa di George Orwell di Fernando Ferrara. Nel 1988 per l’editore Sansoni viene tradotto il volume Nel ventre della balena e altri saggi, una raccolta di scritti narrativi e saggistici tra cui Verso l’unità europea e Riflessioni su Gandhi; e nel 1989 appare la monografia di Stefano Manferlotti George Orwell presso La Nuova Italia, tutti scritti che mettono in causa anche l’aspetto politico dei saggi distopici. Lo stesso orientamento si intravede in altri articoli e saggi di quel periodo: nel 1981 Italo Calvino pubblica, nel nuovo quotidiano “La Repubblica”, “Guardando a un futuro di tenebra” (12 gennaio 1981), nel 1983 Angelo Deidda inserisce il saggio “1984. Before We Forget” in una raccolta dell’editore Franco Angeli e nello stesso anno Luigi Russo cura una raccolta di saggi monografici su “Orwell 1984” (Aesthetica, Palermo); nel 1986 esce una raccolta a più voci “George Orwell 1984. Un romanzo del nostro tempo” a cura di Francesco Marroni, Carlo Pagetti e Oriana Palusci che fa seguito a un convegno sull’autore (Clua, Pescara). Nel 2000, caduto il Muro, Mondadori pubblica un Meridiano su George Orwell. Romanzi e saggi a cura e con un saggio introduttivo di Guido Bulla, il quale aveva già pubblicato nel 1989 Il muro di vetro, Nineteen Eighty-Four e l’ultimo Orwell (Bulzoni).   

Il compagno di strada, “intellettuale dilettante”
In tempi di “cancel culture” non si può dimenticare lo scarto che intercorre tra gli anni del dopoguerra quando le opere di Orwell ebbero in Europa e negli Stati Uniti una larga diffusione, in particolare 1984 (di cui furono subito vendute in Gran Bretagna 50.000 copie e negli Stati Uniti 170.000 più 190.000 copie nel club del libro), e l’interesse tardivo manifestato in Italia, quando già si cominciava a sentire lo sgretolamento del Muro. Il lungo rifiuto di Orwell va infatti inquadrato nell’ostracismo dell’antitotalitarismo decretato dalla cultura filo-Pci che acquistò un ruolo egemonico nel periodo post-bellico senza che al suo interno emergessero significative aperture per le idee altrui. Il caso dell’abbandono di Elio Vittorini del Pci con la chiusura della rivista “Politecnico”, che aveva tentato una interpretazione non ideologica del rapporto tra politica e cultura, è significativo del dogmatismo che per un quarto di secolo aveva regnato a Botteghe oscure (“Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato”, ironizzava Roderigo di Castiglia su “Rinascita” dell’agosto-settembre 1951).    
Fu proprio l’ispirazione socialista libertaria che rese lo scrittore inglese la “bestia nera” dei comunisti fino alla fine dei suoi giorni nonostante il successo orwelliano. In trent’anni dalla prima pubblicazione Millenovecentoottantaquattro fu tradotto in sessantadue lingue e venduto in 10 milioni di copie (“People Weekly”, 9 gennaio 1984) con una diffusione senza precedenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi che -è vero- erano i capofila della lotta al comunismo. Ma perfino molte librerie d’Italia, nazione che pur era parte dell’Alleanza atlantica, non accolsero con entusiasmo le opere metaforiche di Orwell,  guardate con sospetto da una parte del pubblico che le frequentava.  
Lo scarso successo di 1984 non dipese solo dalla scomunica di Togliatti e della “Pravda” che aveva definito “schifoso organo di propaganda” il libro di Orwell, ma anche dalla convinzione di gran parte dell’intellighenzia di sinistra che i resistenti antinazisti e antifranchisti non potessero praticare l’anticomunismo in contraddizione con la realtà e il mito dell’unità antifascista. Nel 1984, in un comunicato stampa in occasione di una nuova edizione del bestseller, si leggeva questa nota di Orwell: “Il pericolo sta anche nell’accettazione di una visione totalitaria da parte degli intellettuali di ogni colore politico”. Nicola Chiaromonte aveva descritto la natura dell’engagement degli intellettuali filocomunisti nel saggio “Il tempo della malafede. Il comunismo e gli intellettuali” pubblicato in Italia qualche anno dopo l’apparizione del romanzo distopico (Problemi del nostro tempo, opuscolo n.12, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1953):
L’intellettuale dilettante di comunismo è, in sostanza, vittima non tanto delle finzioni e delle manovre comuniste quanto dell’illusione che l’adesione intellettuale a un sistema che è d’imperio e non di persuasione possa rimanere senza conseguenze per l’intelletto. Ma, una volta ammesso che il miglior modo di pacificare la propria coscienza politica è di partecipare mentalmente dell’universo comunista, l’intellettuale si trova poi subito a partecipare della sicumera morale che il sistema garantisce ai suoi adepti. Dalla sicumera morale all’arroganza intellettuale il passo è brevissimo. Una volta adottato un certo modo di ragionare, sarebbe in verità assurdo non servirsi degli argomenti che, da un tale punto di vista, sono i più efficaci.

La Guerra civile spagnola discriminante a sinistra
tra democratici e comunistiOrwell non si dedicò alla sola scrittura, ma impegnò tutto se stesso in iniziative antitotalitarie fino agli ultimi giorni della sua vita quando era assediato da una grave malattia. Con il Freedom Defence Committe di Herbert Read, Bertrand Russel e E.M. Forster per “sostenere individui e organizzazioni, e difendere coloro che sono perseguitati perché esercitano il loro diritto alla libertà di parola, di espressione e di azione”; con la League for the Dignity and Rights of Man insieme a Russel, Arthur Koestler e Victor Gollancz  per “promuovere l’uguaglianza delle opportunità, opporsi allo sfruttamento economico e la libertà di espressione”. Tra gli ultimi suoi atti vi fu l’adesione a un Comitato per la protezione e l’assistenza ai democratici spagnoli che comprendeva Albert Camus, Jean Paul Sartre, André Gide, Francois Mauriac, André Breton e gli italiani Ignazio Silone e Carlo Levi.
La sua avventura politica schiettamente socialista, libertaria e umanitaria, cominciata nella guerra civile antifranchista, si concluse dopo quindici anni sulla stessa frontiera spagnola che aveva segnato senza equivoci il solco profondo che nel Novecento aveva diviso, in Europa e non solo, la sinistra democratica dalla sinistra totalitaria comunista.