Nella seconda metà degli anni Sessanta mutò lo scenario della politica antitotalitaria in Italia. Nell’orizzonte internazionale si verificarono cambiamenti significativi negli Stati Uniti, prima con l’elezione di John F. Kennedy (1960-1963) che contribuì alla distensione tra i due blocchi patrocinando il compromesso sui missili sovietici a Cuba, e poi di Lyndon B. Johnson (1963-1968) che nella politica domestica portò a conclusione l’integrazione razziale nel sud e cominciò a combattere la povertà con i provvedimenti del Medicare e Medicaid; in politica estera, al contrario, la presidenza democratica annegava nel gorgo della guerra in Vietnam, un conflitto regionale tra le superpotenze da cui gli Stati Uniti sarebbero usciti battuti e avviliti.
In Vaticano l’elezione di Giovanni XXIII (1958) con la convocazione del Concilio vaticano II aprì le porte del cattolicesimo a una nuova aria che rendeva la Chiesa romana non più arcigna e tradizionalista come era stata quella di Pio XII nella ricostruzione post-bellica.
In Italia, dopo alcuni anni di travaglio interno alla Democrazia cristiana, con il centro-sinistra i socialisti di Pietro Nenni tornavano al governo (vi erano stati nel 1944-1947), incalzati dall’ex alleato comunista, dimezzati in voti rispetto alla Costituente, e indeboliti dalla scissione a sinistra di Lelio Basso, Vittorio Foa e Tullio Vecchietti legati al mito dell’unità di classe e a una non celata simpatia per la patria sovietica del socialismo. Anche i protagonisti di una possibile politica antitotalitaria avevano una nuova fisionomia. Molti degli antifascisti che erano stati critici del comunismo rimanevano in una posizione laterale nella politica e nella cultura del Paese. Dal canto loro, i socialisti non frontisti, rimasti per anni ai margini del partito alleato al Pci, riacquistavano un ruolo primario se pure travagliati da una varietà di correnti e di obiettivi politici. I repubblicani, insieme ai socialdemocratici che si erano battuti per eleggere il loro leader Giuseppe Saragat al Quirinale (1964), partecipavano al centro-sinistra, mentre i liberali di Giovanni Malagodi passavano da destra all’opposizione costituzionale prendendo le distanze da monarchici e missini.  

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Tramontava la stagione dei grandi antitotalitari che avevano avuto un ruolo tra le guerre mondiali in opposizione ai regimi dei Paesi autoritari (Germania, Italia, Spagna…) che, per lo più, erano ex comunisti che avevano lasciato il partito nella stagione dei processi staliniani. L’ondata dei dissidenti comprendeva noti intellettuali come Arthur Koestler, Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Ignazio Silone e Stephen Spender,  che più tardi avrebbero pubblicato le loro testimonianze sul comunismo in The God that Failed, introdotto da Richard Crossman, libro che fu attaccato da Roderigo di Castiglia (Togliatti) su “Rinascita” con un pezzo intitolato “I sei che sono falliti”.
In seguito alla polemica sul finanziamento della Cia al Congresso internazionale per la libertà della cultura, si estingueva anche il suo ramo italiano (Ailc) guidato da Ignazio Silone; e chiudeva nel 1968 “la più bella rivista del tempo”, “Tempo presente”, che aveva dato voce al socialismo umanistico dell’Occidente immerso nella Guerra fredda culturale. Nel commiato dell’ultimo numero “Tp” affermava di essere rimasta fedele al programma iniziale “di informare e discutere liberamente i problemi politici e culturali del mondo contemporaneo fuori da ogni pregiudizio ideologico o nazionalistico”.
Il suo direttore Nicola Chiaromonte, che negli ultimi anni aveva scritto di critica teatrale nel settimanale “L’Espresso” dopo “Il Mondo”, morì nel 1972, quasi dimenticato dai circoli culturali italiani. A testimonianza della autonoma posizione degli intellettuali italiani per la libertà della cultura nei confronti anche dell’America, si può leggere la lettera che Chiaromonte scrisse nel 1966 al suo sodale americano Dwight Macdonald:

C’è una questione di principio insita nella guerra del Vietnam, e cioè che cosa l’America vuole essere. Se vuole essere massimamente potente, massimamente ricca, massimamente meccanizzata, un paese ultratecnologico e dove tutto è calcolato elettronicamente, come alcune persone sembrano sognare (e più che semplicemente “alcune”), allora Johnson è nel giusto […]. Ma se si pensa che la potenza americana ha un altro significato e un altro destino, e che l’imperialismo è completamente estraneo alla sua natura, perché la sua potenza è affidata all’“espansione culturale”, non alla forza militare, allora bisogna essere abbastanza fermi e contrari a qualsiasi tipologia di discorso sul “prestigio nazionale”, sul “salvare la faccia” […].
Un binario parallelo a “Tempo Presente” fu quello del gruppo raccolto intorno a “Il Mondo”, settimanale che cessò le pubblicazioni nel 1966 con il direttore Mario Pannunzio, che scomparve due anni dopo. Il commiato aveva l’aria del tramonto di un’epoca:

Non sta a noi giudicare il segno lasciato dalla nostra presenza […] Un giornale liberale, un giornale laico e antifascista, un giornale indipendente, doveva impegnarsi sui problemi della libertà e del costume civile, e non vi è stata questione di educazione del cittadino, di rinsaldamento dello Stato e delle istituzioni parlamentari, di efficienza del governo e di moralità pubblica, di politica interna e internazionale, di economia sociale e di conflitto fra l’interesse privato e quello collettivo, di fronte alla quale il giornale non abbia detto quel che gli è sembrato di dover dire […]. Per anni abbiamo denunciato […] l’invadenza clericale, il sottogoverno delle maggioranze, i connubi tra mondo politico e mondo economico. Abbiamo deplorato con ostinazione la chiusura irrimediabile del mondo comunista alle sollecitazioni della libertà […]. La pressione di enormi masse che votano per i cattolici, per i comunisti e perfino per i monarchici e i fascisti impone con la forza del numero ideali e concezioni politiche, culturali e morali, lontane dal mondo moderno.

Erano esplosi i movimenti del “Sessantotto”, portatori sì del risveglio delle energie giovanili che tuttavia rimasero quasi del tutto estranee al problema del totalitarismo, vale a dire alla critica congiunta del comunismo sovietico e cinese e dell’imperialismo americano intrappolato nel Vietnam dalla politica di potenza militare.

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Nel quinquennio tra la repressione in Ungheria (1956) dopo il rapporto Krusciov sui crimini di Stalin al XX congresso Pcus e il centro-sinistra (1963) si produssero eventi importanti per la nostra ricostruzione. Il fronte definibile antitotalitario si arricchiva di intellettuali politici e militanti di partito che abbandonarono più o meno convintamente il Partito comunista polemizzando con il comunismo in versione  staliniana.
Negli anni Trenta anche in Italia vi erano stati importanti dissidenti comprendenti, oltre Silone, il giovane Altiero Spinelli, che a Ventotene, nel 1937,  aveva abbandonato il gruppo dei confinati comunisti per unirsi a quello di Giustizia e libertà. Negli anni Cinquanta altri intellettuali firmarono il cosiddetto “Manifesto dei 101” incentrato sulla critica al Pci dopo che Aldo Cucchi e Valdo Magnani alcuni anni prima avevano criticato l’assoggettamento del Pci all’Unione Sovietica meritando ancora una volta una volgare risposta di Togliatti: “Anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi”. Altri importanti intellettuali collaboratori del leader comunista ruppero i rapporti con il partito in seguito all’Ungheria. Eugenio Reale, membro dei governi Cln, ambasciatore in Polonia e delegato alla conferenza per la costituzione del Cominform, uscì nel 1956 dal Pci e si iscrisse al Psdi di Saragat, tanto da meritare da parte di Giancarlo Pajetta l’epiteto di “pattumiera della storia”.
Intorno all’ex dirigente comunista napoletano si formò la rivista “Corrispondenza socialista”, a cui collaborano alcuni altri fuoriusciti, quali Michele Pellicani e Giuseppe Averardi, e i giovani giornalisti Antonio Ghirelli e Giorgio Galli. Nello stesso periodo fu espulso Fabrizio Onofri, già segretario di Togliatti, che aveva rifiutato di comparire di fronte alla commissione di controllo del Pci romano che lo chiamava a giustificarsi per una serie di articoli in cui criticava il leninismo e auspicava l’unificazione socialista. Molti di coloro che abbandonavano il Pci si indirizzavano verso le due anime del socialismo italiano, il Psdi e il Psi, e davano vita a una fioritura di riviste di area socialista versione occidentale. Antonio Giolitti fondò “Passato e Presente” insieme a Luciano Cafagna, Furio Diaz, Domenico Settembrini, Alberto Caracciolo, Luciano Vasconi e Carlo Ripa di Meana, futuro commissario della Comunità europea e promotore della “Biennale del dissenso di Venezia” negli anni Settanta; Fabrizio Onofri diede vita a “Tempi moderni” e altri intellettuali dediti alle scienze sociali, Roberto e Armanda Guiducci, Franco Momigliano e Alessandro Pizzorno a Milano pubblicarono “Ragionamenti”, pendant del foglio francese “Arguments” di Edgar Morin.
La nascita del centro-sinistra, con il Psi e Psdi insieme al governo, portò a quella unificazione tra i due partiti di cui anni prima avevano discusso Nenni e Saragat a Pralognan. Nel gennaio 1962, in vista della svolta del centro-sinistra Pietro Nenni aveva pubblicato un saggio sulla rivista “Foreign Affairs” in cui affermava che era sbagliato considerare il Psi una fotocopia del Pci e sostenitore di un neutralismo vicino all’Unione Sovietica. Con quel messaggio indirizzato agli americani che avevano eletto John F. Kennedy alla presidenza, il leader socialista entrava a far parte da vice-presidente del governo presieduto dal democristiano Aldo Moro. Alcuni anni dopo, da ministro degli Esteri, firmava una dichiarazione ufficiale in cui affermava che “il governo considera il Patto atlantico nella sua interpretazione difensiva e geograficamente delimitata il fatto essenziale nella sicurezza del Paese”. L’attempato ex rivoluzionario, che nel 1948 aveva ricevuto il premio Stalin per la pace, entrava a pieno titolo nella scena occidentale mentre il suo dirimpettaio socialdemocratico, Giuseppe Saragat, veniva eletto alla presidenza della Repubblica nel dicembre 1964 quattro mesi dopo la morte di Togliatti. Si erano create le condizioni per l’unificazione di Psi e Psdi (30 ottobre 1966) che assunse nella sigla Psu la stessa denominazione del partito di Filippo Turati e Giacomo Matteotti espulsi nel 1922 dai massimalisti: Pietro Nenni ne diveniva il presidente e Francesco De Martino e Mario Tanassi segretari. Quando erano già scoppiati la contestazione studentesca e il dissenso cattolico (convegno del circolo Maritain di Rimini, novembre 1967), le elezioni politiche del 1968 diedero un risultato disastroso per il Psu che raccolse il 5,5% dei voti in meno di quello che avevano ottenuto i due partiti separati. In ­realtà i quadri e gli elettorati di Psi e Psdi erano rimasti separati e non vi era stata alcuna mobilitazione di ambienti e movimenti esterni ai due partiti.
In tal modo svaniva un’altra ipotesi di terza forza, questa volta socialista, mentre il Partito comunista che si era opposto con tutti i mezzi al governo di centro-sinistra continuava a espandersi a danno di socialisti, laici e cattolici, pur conservando una sostanziale ambiguità filo-sovietica interna e internazionale.   

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Nel venticinquennio post-bellico prendeva corpo una nuova corrente antitotalitaria, il federalismo europeo. Si trattava nei primi trent’anni del Novecento  di una tendenza idealistica che alla fine del nazifascismo si trasformava in azione politica. L’originaria ricerca sul federalismo veniva accolta dalle principali forze democratiche europee come progetto alternativo all’ideologia comunista con l’obiettivo di mettere fine a secoli di conflitti nazionalistici che avevano provocato le tragedie delle guerre mondiali. Di fronte al massacro della Grande guerra alcuni pensatori avevano riflettuto sulla necessità di arrivare a una federazione europea come alternativa ai militarismi del Vecchio Continente. In Italia il giovane economista Luigi Einaudi pubblicava nel 1918 sul “Corriere della Sera” due articoli a firma Junius sostenendo che la pace poteva nascere solo da una federazione mondiale che toglieva agli Stati il diritto e il bisogno di ricorrere alla forza, in particolare da una federazione tra popoli e Stati d’Europa. Negli anni successivi furono pubblicati in Inghilterra i lavori di Lord Lothian Il pacifismo non basta e di Lionel Robbins L’economia pianificata e l’ordine internazionale, che affrontavano il tabù della sovranità nazionale, con spirito analogo al presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, che alla conferenza per la pace di Versailles proponeva una “Società delle nazioni”.
Gli articoli di Einaudi e le ricerche britanniche insieme allo studio del Federalist, l’origine del costituzionalismo americano, fecero maturare nel 1941 alla fervida intelligenza di Altiero Spinelli,  insieme agli studi di Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni quel progetto politico-utopico conosciuto come “Manifesto di Ventotene”, l’isola in cui gli antifascisti scontavano il confino.
Il documento “per una Europa libera e unita” fu concepito mentre l’intero continente era in mano a Hitler e le forze liberali, cristiane e socialiste erano state ovunque annientate. Eppure i tre antifascisti ipotizzarono per il dopo nazismo la realizzazione di un’idea allora impensabile che puntava sulla convivenza pacifica tra la Francia, la Germania e le altre nazioni europee. Ernesto Rossi era un economista seguace dei fratelli Rosselli incarcerato per molti anni: “Io mi sono sentito sempre più europeo che italiano; o meglio mi sono sentito italiano in quanto questa qualità mi dava il modo di affermarmi come europeo…”. Eugenio Colorni, socialista, filosofo triestino di origine ebraica, dopo aver contribuito alla nascita del Movimento federalista europeo, fu catturato e ucciso dai nazisti nel 1944, pochi giorni prima della liberazione di Roma; e Altiero Spinelli, espulso nel 1937 a Ponza dal Partito comunista e unitosi al gruppo Gl, diveniva al confino il più fervido sostenitore di quel progetto dell’Europa unita e federale che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Due erano le idee cardine che sarebbero restate ferme nella sua Weltanschauung: che la Federazione europea non dovesse essere considerata un bell’ideale a cui rendere omaggio, ma un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire subito; e che la lotta per l’unità europea sarebbe dovuta divenire lo spartiacque che avrebbe diviso le correnti politiche tra quelle impegnate nella conquista del potere nazionale e quelle che avrebbero riconosciuto come loro compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale.
Al Movimento federalista europeo, fondato a Milano in clandestinità nel 1943, aderirono ben presto, oltre a Einaudi, Mario Alberto Rollier, Manlio Rossi Doria, Leone Ginsburg, Ignazio Silone, Egidio Reale, Adriano Olivetti e altri antifascisti, molti dei quali avevano militato nel fronte repubblicano in Spagna e nella resistenza europea. All’inizio del 1945, quando ancora si combatteva in Europa e Asia, Spinelli, d’accordo con Ferruccio Parri e Leo Valiani alla testa del Cln, organizzò a Parigi la prima conferenza sovranazionale federalista con la partecipazione, tra gli altri, di George Orwell, Albert Camus, André Philip, Emanuel Mounier e Lewis Mumford.

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Nel decennio post-bellico l’idea europea divenne politica istituzionale a opera di alcuni settori delle forze politiche europee di tradizione cristiana, socialdemocratica e liberale. Così la marcia verso le intese tra i principali Stati europei cominciò a procedere sulle gambe di accordi statali di tipo funzionale, inizialmente sostenuti dagli Stati Uniti che, con il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, si adoperarono per favorire un blocco democratico europeo fondato sull’economia di mercato come argine all’espansionismo sovietico. Fu istituita la Comunità europea del carbone e acciaio (Ceca, 1951) e non andò in porto la Comunità europea di Difesa (Ced, 1952), comunità entrambe pensate per tenere a bada l’economia di guerra e la dimensione militare della Germania che rinasceva dalla sconfitta nazista; quindi, dopo la firma dei “trattati di Roma” (1957), nacque nel 1968 la Comunità economica europea (Cee) o Mercato comune. In parallelo cominciarono a svilupparsi alcune istituzioni, il Consiglio d’Europa sui diritti civili, la Corte europea di Giustizia e il Parlamento europeo prima con le elezioni di secondo grado e poi a elezione diretta (1979), fino al Sistema monetario europeo (1979) e alla moneta comune (2000) con al vertice della piramide europea un Consiglio rappresentativo degli Stati e una Commissione rappresentativa dell’Europa. L’originario gruppo degli Stati che parteciparono ai processi unitari europei era composto da sei Paesi (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) allargatosi nel tempo fino a 28 nazioni con circa 500 milioni di abitanti.   
Per sessant’anni l’idea dell’unità europea era andata avanti secondo modalità ben diverse da quelle che erano state proposte dai federalisti. Si era mano a mano creato un blocco di Stati per lo più democratici e rispettosi delle libertà politiche e dei diritti civili governati da forze democristiane, socialdemocratiche, liberali e conservatrici, antagonista fino al 1989 del blocco sovietico, i cui caratteri erano più vicini a quelli di una confederazione economica e finanziaria che non di un organismo politico federato. Quale fu, di conseguenza, l’atteggiamento del “vecchio saggio” del federalismo Altiero Spinelli? Nella lotta per l’Europa il suo spirito antitotalitario era rimasto costante: “La novità mondiale della nostra epoca, intravista solo dai comunisti, è che l’umanità ha ormai un destino politico unico, valido per tutti, e che esso non può essere altro che quello della libertà per tutti, cioè della democrazia”. Ma il suo atteggiamento di fronte al processo europeo cambiò nel corso del tempo: nel primo periodo si oppose ai trattati comunitari in nome di una missione federalista personale che si manifestava con l’organizzazione di movimenti, gruppi di pressioni e snodi culturali per la convocazione di un congresso del popolo europeo.
Con il centro-sinistra in Italia la sua strategia mutava a favore dell’obiettivo di ispirare e influenzare la classe politica tessendo una fitta rete di rapporti tra Europa e America: era convinto che i partiti dovessero andare verso di lui per dare corpo all’Europa, e non che lui dovesse imbarcarsi nei partiti. Nel 1968 accettò perciò di fare il consigliere di Pietro Nenni, ministro degli Esteri, al fine di sospingerlo nella battaglia per l’Europa federata. Nominato nel 1970 membro della Commissione europea, si adoperò per disincagliare le istituzioni di Bruxelles dalle secche burocratiche; qualche anno più tardi, nel 1976, accettava la candidatura a Montecitorio nelle liste del Pci per essere designato al Parlamento di Strasburgo, quindi nel 1979 veniva eletto alle prime elezioni dirette per il Parlamento europeo. Su sua ispirazione, nel 1986 il Parlamento europeo approvava l’Atto unico europeo, una specie di embrione del potere federale europeo per trasformare la Comunità nel progetto costituzionale della federazione europea da realizzarsi attraverso un referendum dei popoli europei. Scomparve nello stesso anno (era nato nel 1907), testimone di un incompiuto federalismo antitotalitario in grado di superare i nazionalismi e alternativo al sistema imperiale di Mosca, alle vie nazionali al socialismo, autonomo dalla politica di potenza degli Stati Uniti.

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Guidato dal giovane Marco Pannella il nuovo Partito radicale, che nel 1962 ereditava la sigla Pr dalla formazione di Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi, divenne nel giro di una stagione un protagonista sulla scena politica italiana con una carica innovatrice sia rispetto ai partiti liberaldemocratici, sia a quelli di sinistra. Si differenziava dalle forze laiche (Pli, Pri e Psdi) perché aveva uno stile militante e proponeva iniziative politiche -diritti civili, laicismo e anticlericalismo, Stato di diritto, oltre all’occidentalismo- non solo derivanti dalla tradizione liberale, ma anche modalità di azione proprie delle nuove sinistre nonviolente; e si distingueva dalla sinistra (Pci e Psi) perché faceva del pacifismo e dell’antimilitarismo internazionalista i cardini della sua politica estera fuori dalla logica dei rapporti di forza fra Stati. La strategia del piccolo gruppo per anni extraparlamentare puntava sull’unità e il rinnovamento della sinistra nonostante fosse agli antipodi del frontismo ed estraneo all’egemonia del Partito comunista, generalmente accettata da gran parte della sinistra. Tra i radicali emergeva una decisa caratura antitotalitaria per quanto praticata da un minuscolo partito di poche centinaia di membri pronti tuttavia a compiere azioni esemplari.
La tensione e lo stile politico di tipo extraparlamentare, ma non antiparlamentare, caratterizzarono la vicenda radicale prima come movimento nella società (1962-1976) e poi in parlamento (1976-1989), dove furono combattute numerose battaglie per le riforme civili per le quali il Pr fungeva da motore di avviamento. Il momento di massima efficacia si verificò nei primi anni Settanta quando il divorzio, da bandiera ideale dei laici e socialisti, divenne per la prima volta nella storia dell’Italia unita legge dello Stato a vantaggio specialmente dei ceti popolari che non avevano accesso ai tortuosi metodi ecclesiastici o ad altri mezzi dispendiosi di scioglimento del matrimonio. La carica ideale (non ideologica) dei radicali si trasformava in una politica pragmatica volta al raggiungimento di specifici obiettivi legislativi fino al 1989, anno dello scioglimento di fatto del partito trasformato da Pannella in una fantomatica entità transnazionale e transpartitica con l’abbandono del simbolo della “rosa nel pugno” a favore di una generica effige di Gandhi.  
Anche il pacifismo internazionalista e anti-sovietico fu negli anni Sessanta elemento distintivo radicale nell’ambito di una sinistra che tradizionalmente si comportava da “compagna di strada” delle iniziative comuniste orientate dal movimento dei partigiani della pace. Proprio all’esordio del nuovo radicalismo, nel 1961, il partito elaborava un documento che, per quanto risentisse di un primitivo  integralismo antimilitarista, era significativo della rinnovata linea d’azione:

Dinanzi ai problemi di pace che oggi rappresentano la legittimazione stessa della politica “estera” nel mondo, il Partito radicale afferma che gli obiettivi propri e gli interessi delle masse popolari esigono il proseguimento di una politica che abbia al suo centro: la difesa intransigente dell’Onu e il suo potenziamento progressivo; la costituzione di una federazione europea da perseguirsi attraverso elezioni dirette; il disarmo atomico e convenzionale dell’intera area  continentale europea, con la conseguente abolizione degli eserciti nei paesi di questa area; la pace separata e congiunta con le due Germanie; la conseguente denuncia del patto militare Nato e Ueo; la proclamazione del diritto all’insubordinazione e alla disobbedienza civile di tutti i cittadini che non accettano la politica del riarmo, di guerra, di divisione e di concorrenza di Stati nazionali che perseguono necessariamente obiettivi contrastanti con l’unità internazionale delle classi lavoratrici e democratiche; la federazione o comunque la comune organizzazione di tutti i movimenti socialisti, popolari e rivoluzionari che combattono per l’instaurazione di un regime di democrazia e di libertà nell’Europa occidentale.  

Da quella primitiva dichiarazione, per quanto ingenua e massimalista, veniva indicato un orizzonte che sarebbe stato percorso per anni attraverso iniziative convergenti con i movimenti di nuova sinistra e pacifisti non allineati in un clima che apriva una stagione nuova rispetto agli schematismi della Guerra fredda. Nel 1963 i radicali partecipavano alla costituzione dell’International Confederation for Peace and Disarmament a fianco della Campaign for Nuclear Disamament (Cnd), del britannico Committee of Hundred di Bertrand Russel, alle associazioni integrazioniste e nonviolente americane facenti capo a J. Muste e Bayard Rustin, ai movimenti socialisti pacifisti olandesi e scandinavi, e a personalità europee quali Claude Bourdet, direttore di “France Observateur”, l’inglese abate Collins e il deputato greco Lambrakis. Anche sulla scena italiana i radicali organizzarono movimenti e gruppi estranei alla galassia filo-comunista: nacque il “Comitato per il disarmo atomico e convenzionale dell’area europea”, che fu tra i promotori di una delle prime manifestazioni per la pace e, nel 1964, fu rilanciato tra i parlamentari la proposta del senatore socialdemocratico austriaco Hans Thirring che prevedeva un piano fondato sul disarmo unilaterale graduale e progressivo di vari paesi neutrali, come primo passo per quello generale. Nel 1965 fu promossa una marcia per il Vietnam con una mobilitazione rivolta contro i totalitarismi dell’Est e dell’Ovest, quindi furono ripetute, dalla fine degli anni Sessanta agli anni Settanta, le “marce antimilitariste” che si tenevano in Veneto e Friuli dove maggiori erano le installazioni militari della Nato. La disobbedienza civile nonviolenta, praticata dai radicali insieme ai gruppi intorno ad Aldo Capitini, promotore della prima grande marcia della pace Perugia-Assisi (1960), non polemizzava solo con alcuni aspetti della politica estera italiana, ma anche nei confronti del totalitarismo sovietico contro cui furono rivolte esemplari azioni dirette dimostrative effettuate nei Paesi dell’Est europeo, segnatamente nelle città di Praga e Mosca.
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L’antitotalitarismo radicale, tuttavia, oltre a quella internazionalista aveva una dimensione interna centrata sulla lotta contro i fondamentalismi ideologici e religiosi. Il Partito radicale divenne il prototipo dell’azione per i diritti civili, le libertà politiche e le garanzie giudiziarie per tutti i cittadini in grado di coinvolgere non solo settori dei partiti tradizionali ma anche dei movimenti di nuova sinistra che avvertivano l’esigenza di rifiutare le rivolte pseudo-rivoluzionarie e le violenze terroristiche. Nell’ultimo terzo del XX secolo i radicali con il loro piccolo ma combattivo partito esprimevano una politica che integrava laicità e anticlericalismo, anticomunismo democratico e tensione antiautoritaria, non con enunciazioni teoriche e richiami ideologici, ma con la capacità di tradurre le idealità in riforme che trovavano largo consenso tra i cittadini.   
Allora la politica italiana era dominata dai democristiani al centro del governo e comunisti alla guida di una opposizione tendente a integrarsi nel potere con gli stessi democristiani piuttosto che puntare all’alternanza tra conservatori e riformatori. Certo, vi erano anche le forze dell’estrema destra con forti venature eversive e, dalla parte opposta, i partiti laici che negli anni Cinquanta avevano giocato un ruolo nel mantenimento della democrazia, e il Psi di Nenni che, con il centro-sinistra prima e la segreteria Craxi poi, esercitò un ruolo per quanto secondario di protagonista della scena politica. In quel contesto, nel quindicennio 1965-1979, per quanto numericamente marginali, i radicali divennero un protagonista politico da cui il sistema dei partiti non poteva prescindere avendo innescato la battaglia per i diritti civili e dato voce alla secolarizzazione della società liberandola, almeno nei settori più avvertiti, dai lacci del potere ecclesiastico sulla politica.    
In quella situazione, l’azione del gruppo di Marco Pannella ebbe un effetto dirompente. L’approvazione della legge per il divorzio nel 1970 e il pronunciamento nel referendum popolare al 60% contro l’integralismo clericale (1974), che portò in seguito anche alla legge per la legalizzazione dell’aborto, aprirono la strada a un nuovo corso che non è esagerato definire anti-totalitario in quanto mise ai margini l’integralismo clericale, presente in termini religiosi e politici a fianco della Democrazia cristiana, e la passività conservatrice dei comunisti che non ebbero mai il coraggio di tagliare i ponti con la loro storia illiberale.
I radicali riuscirono per trent’anni a rappresentare sotto molti aspetti una reale alternativa: diritti civili contro consociativismo, nonviolenza contro violenza, movimento nella società contro partitocrazia, trasparenza contro corruzione e garantismo contro giustizialismo. Certo, tale rappresentazione della politica radicale può essere considerata unilaterale e viziata da chi ne fece parte e firma questi appunti. Il reale peso politico del Partito radicale fino alla crisi della prima Repubblica fu tuttavia superiore alla sua forza elettorale, e ciò per un quarto di secolo grazie alla guida di Marco Pannella coadiuvato da un ceto dirigente dinamico ed estraneo ai vizi dei partiti. Quando poi il Pr è stato trasformato in transpartito transnazionale per volere del leader che preferiva una specie di setta arroccata intorno alla sua persona, l’impulso politico decadde fino ad annullarsi nella parabola finale della “prima” Repubblica, pur nella permanenza di alcune lodevoli iniziative (carceri, eutanasia, ecc.) che tuttavia non incidevano sugli equilibri politici del Paese. La storia politica dell’Italia indica che fino a quando i radicali sono stati presenti con una intensa azione popolare e parlamentare hanno funzionato da anticorpo dapprima contro le degenerazioni partitocratiche, poi combattendo il giustizialismo che ha stravolto lo Stato di diritto e, infine, facendo argine al populismo che ha dominato gli anni a noi più vicini.
(segue nel prossimo numero con la terza e ultima puntata)