Da una quindicina di anni ho rapporti significativi con l’Università statale di San Pietroburgo ed in particolare con la sua Facoltà di Filosofia, che tra il 2006 e il 2008 ha lavorato per la costituzione di un Corso di laurea in Cultura italiana. La fase preparatoria ebbe il suo momento culminante in un tour compiuto presso alcune delle principali università italiane da un gruppo di docenti dell’Ateneo pietroburghese per presentare e discutere il piano di studi del nuovo Corso di laurea. La prima tappa del viaggio fu costituita dalla allora Facoltà di Scienze politiche di Torino dove incontrarono il preside, alcuni docenti, oltre a me, che ero promotore del colloquio.
Esaminando e discutendo il piano didattico ci rendemmo conto che il Corso di laurea in Cultura italiana dell’Università di San Pietroburgo non aveva nulla da invidiare ad analoghi insegnamenti impartiti presso titolate università inglesi e americane. Veniva offerta una visione molto ricca e complessa, tale da rendere conto in maniera adeguata delle principali articolazioni della realtà italiana dalla politica alla società, dall’economia all’arte, dalla filosofia alla religione, dalla lingua alle tradizioni, alla cultura materiale.
I corsi sono iniziati nel 2009. Fui quindi promotore e responsabile per l’Ateneo torinese dei rapporti con l’Università statale di San Pietroburgo, presso la quale fui poi visiting professor nel 2013. Conosco quindi abbastanza bene la realtà russa.
Qualche anno fa, alcuni docenti russi, di fronte all’evoluzione verso posizioni autoritarie di Putin, non ben percepite dalla opinione pubblica in Occidente, mi avevano chiesto consiglio circa l’opportunità di una loro eventuale scelta di lasciare la loro terra. Li avevo sconsigliati: a mio giudizio non c’era un futuro per la Russia se i suoi intellettuali progressisti l’avessero abbandonata. Ora sono pentito di quel consiglio, ma non potevo certo prevedere un esito drammatico come quello attuale. Quasi tre mesi prima che scoppiasse il conflitto, mi parlavano di una persuasione diffusa, alimentata dai media ufficiali, che la Russia avrebbe invaso l’Ucraina, speravano che ciò non succedesse, ma erano preoccupati. Sin dai primi giorni dopo l’invasione ero angosciato per i rischi che per le loro posizioni i miei amici e colleghi correvano, di perdere il lavoro o di venire incarcerati. La loro preoccupazione maggiore, come la percepivo, era tuttavia quella di venire isolati sul piano culturale, che la Russia diventasse una sorta di gigantesca Corea del Nord, il che sarebbe stato davvero terribile. La cultura per sua natura non conosce confini, cresce attraverso la comunicazione continua, il confronto e il dialogo. Pensiamo ai contributi che la cultura russa ha recato a quella italiana in campo scientifico coi suoi premi Nobel, in campo artistico e letterario. Pensiamo all’apporto grandissimo recato dalla cultura italiana a quella russa attraverso le arti figurative, il teatro, la musica amatissima, sino alla cultura alimentare, che era diventata negli ultimi anni un riferimento e un modello da imitare.
Come noto, grandissima è stata l’influenza degli architetti e urbanisti italiani, a cui si deve la costruzione degli edifici più significativi di San Pietroburgo e dintorni e dello stesso Cremlino a Mosca, nella sua parte storica, cioè antecedente la rivoluzione. È stato osservato che le città capitali nella loro dimensione monumentale contengono la raffigurazione di un sistema di valori. Splengher ha scritto “la capitale fa sapere […] che cosa si deve volere e per cosa si deve (eventualmente) morire”. Non è certo mia intenzione seguire Splengher nel suo linguaggio provocatorio, soprattutto in questo periodo. Certo è che i luoghi simbolo russi sono stati costruiti in larga misura da italiani.
Numerosi sono i convegni italo-russi promossi in questi ultimi anni dal Corso di laurea in Cultura italiana di San Pietroburgo. Dal 2012 è stata avviata una collana di volumi dal titolo altamente significativo “Studia culturae. Terra Italia”. All’ultimo convegno hanno partecipato anche studiosi polacchi.
Nella fase precedente il Covid ogni anno un nutrito gruppo di studenti del Corso di laurea pietroburghese compiva un viaggio in Italia, guidati dalla responsabile del Corso la prof. Zhanna Nikolaeva, e facevano tappa a Torino. Studenti russi compivano percorsi di studio nel capoluogo piemontese e altrettanto facevano i nostri studenti presso l’ateneo russo. Questo naturalmente valeva per tante altre università italiane ed occidentali. Si è parlato per l’Europa unita dell’importanza costituita dalla nascita e dallo sviluppo della “generazione Erasmus”. Un fenomeno simile, seppure in forma minore, stava avvenendo con la Federazione russa.
Chi ha una minima conoscenza dei giovani russi sa come questi fossero affascinati dalla cultura dell’Occidente. Nei loro soggiorni avevano occasione di conoscere il funzionamento concreto, pur con tutti i suoi limiti, di un sistema liberal democratico, in cui stentavano a trovare precedenti nella cultura del loro paese. Purtroppo se Putin in questa ultima fase della sua evoluzione politica intende instaurare una continuità con la tradizione anche prerivoluzionaria e frenare i processi di occidentalizzazione in Russia, bisogna convenire che con la sua “operazione speciale” ha ottenuto risultati significativi. I rapporti culturali si sono quasi completamente interrotti. Finita la guerra non dovremo isolare i giovani e più generale la popolazione russa, che non ha colpa di quanto sta succedendo. Sarebbe la vera vittoria di Putin e del suo entourage, al di là di quello che possa essere l’esito del conflitto, imprevedibile e non più scontato, in un settore molto più importante di quello, pur non trascurabile, dell’economia.
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