Molte persone anche esperte della Seconda guerra mondiale sono convinte che lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio 1943 sia avvenuto con un accordo tra la mafia e l’intelligence militare americana. Questa falsa convinzione è stata per molto tempo coltivata da divulgatori storici, disinvolti pubblicisti, autori di primarie case editrici e, paradossalmente, accettata quale versione ufficiale da due commissioni parlamentari antimafia, presidenti Luigi Carraro nel 1976 e Luciano Violante nel 1993. Sulle grandi questioni della nostra storia ancora una volta si ripete l’errore di accreditare versioni fasulle che paiono utili a eccitare pulsioni complottistiche e a costruire bersagli di comodo su cui indirizzare il desiderio di verità e giustizia. Sono stato testimone del modo in cui è stato dipinto Licio Gelli, quale terminale di tutti i complotti della Repubblica nella commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 dalla relazione della on. Tina Anselmi; qualcosa di analogo è stato costruito sul ruolo della mafia per lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Entrambi i casi hanno eccitato l’anti-americanismo strisciante nel sottosuolo italico che pare essere sempre pronto a riemergere al momento opportuno.   
Salvatore Lupo, tra i più accreditati storici della mafia, pubblica ora un libro apparentemente succinto che in realtà presenta in una chiara sintesi il risultato di ricerche condotte per anni negli archivi americani, inglesi e italiani intitolato Il mito del grande complotto. Gli americani, la mafia e lo sbarco in Sicilia del 1943 (Donzelli editore, 2023) corredato da un imponente apparato di fonti che soddisfa ogni interrogativo sulla questione degli Alleati in Sicilia. Lo storico non enuncia una tesi, ma documenta come la visione secondo cui la mafia avrebbe dato un importante contributo strategico al primo sbarco Alleato in Europa non sia stata altro che una opinione lievitata su se stessa in una specie di castello di panna montata. È stato Michele Pantaleone che nel 1958 con alcuni articoli sul quotidiano di sinistra ”L’Ora” di Palermo, poi compendiati nel libro Mafia e politica (prefazione di Carlo Levi, Einaudi, 1964) a lanciare l’idea della mafia di Lucky Luciano alla guida dello sbarco militare Alleato in Sicilia. Di qui la leggenda del capomafia di Villalba, don Calò Vizzini, che avrebbe accolto all’ingresso nel suo paese un carrarmato americano che portava un foulard di riconoscimento con ricamata una grande Elle di Luciano. Nessun documento ha mai documentato la tesi di Pantaleone sui rapporti tra “maffia” e militari prima dello sbarco, né si trova alcuna traccia nella commissione parlamentare sul gangsterismo in America presieduta dal senatore Estes Kefauver (1950) che pure ha analizzato con cura le attività dei più importanti personaggi mafiosi italo-americani tra cui lo stesso Lucky Luciano. Sfiora il ridicolo ritenere che la più grande operazione di sbarco della storia nell’Europa in mano ai tedeschi prima di quello in Normandia possa essere stato pilotato da gruppi di mafiosi.
Lucky Luciano è il personaggio chiamato in causa per testimoniare il rapporto mafia-americani nello sbarco in Sicilia. È vero che il boss dei boss LL, graziato dopo la guerra e rispedito in Italia nel gennaio 1946, fu contattato dalla Us Naval Intelligence nel gennaio 1942 in un carcere di massima sicurezza e trasferito in un penitenziario vicino a New York secondo le indicazioni dei gangster Meyer Lansky e Frank Costello come l’unico capomafia in grado di dare ordine ai portuali di New York, dove si erano verificati alcuni episodi sospetti di infiltrazioni dei tedeschi. Ma gli storici americani confermano che il porto di New York, grazie al contatto con Luciano in carcere, divenne più tranquillo per le retrovie della guerra come è certificato anche dal rapporto militare britannico: “All’atto dell’ingresso degli Stati Uniti in guerra, le Forze armate richiesero l’aiuto di Luciano per indurre altri a fornire informazioni relative a possibili attacchi nemici su New York. Sembra che egli abbia cooperato in questo sforzo, per quanto non sia chiaro il valore reale delle informazioni così procurate”. Il rinvio di Luciano in Italia, dove sembra che si sia dedicato al narcotraffico, fu ordinato dal procuratore e governatore repubblicano di New York Thomas Dewey, per due volte candidato alla presidenza degli Stati Uniti contro F.D. Roosevelt nel 1944 e Truman nel 1948.  
Diverso è il discorso sui contatti tra alcuni padrini locali della mafia siciliana rimasti attivi durante il fascismo e alcuni ufficiali del Governo militare alleato (Amg) in carica in Sicilia dal luglio 1943 al febbraio 1944 sul terreno della borsa nera. I capetti mafiosi furono segnalati in loco alle autorità Alleate come le uniche persone che, alla disfatta del fascismo, avrebbero potuto mantenere l’ordine pubblico nei paesi liberati insieme ad alcuni aristocratici che furono destinati a sindaci nelle maggiori città, come il conte Lucio Tasca Bordonaro a Palermo e il marchese Antonio Paternò di Castello di San Giuliano a Catania. È durante i sette mesi del governo militare in Sicilia che si instaurò un mercato nero in cui i capimafia locali fecero come avevano sempre fatto da intermediari nei confronti della popolazione. Fu allora che con una sperimentata furbizia i boss mafiosi tentarono di accreditarsi come antifascisti e sostenitori degli Stati Uniti anche attraverso il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), presunto partito filoamericano a cui si attribuiva la vaga idea di voler aggiungere la stella siciliana alla bandiera federale americana.
In realtà, il governatore militare dell’Italia liberata, il colonnello Charles Poletti, democratico, già vice-governatore dello Stato di New York, che non coltivava alcuna contiguità né con la mafia né con gli indipendentisti, ebbe l’ingrato compito di organizzare rapidamente un governo militare con compiti civili in grado di stabilizzare l’isola. I partiti antifascisti del Cln non avevano radici sull’isola e solo il Pci di Girolamo Li Causi vantava una presenza organizzata tra i contadini senza tuttavia poter essere considerato un interlocutore privilegiato dagli Alleati; d’altro canto i notabili liberali, borghesi e aristocratici, erano in buona parte compromessi con il fascismo. Il mondo cattolico basato sulla rete delle parrocchie non aveva ancora mostrato nel 1943-44 una forza elettorale rivelatasi solo ai primi turni delle elezioni amministrative e politiche. Di fronte alla potenza tedesca (con alleati gli italiani) la priorità degli Alleati era la guerra per cui occorreva un’amministrazione civile garante della stabilità. Gli inglesi puntavano sulla monarchia che in Sicilia era più che mai screditata, e gli americani stentavano a trovare quegli interlocutori democratici che corrispondevano allo spirito rooseveltiano. L’italo-americano Max Corvo, responsabile per l’Italia del servizio segreto Oss, proveniente da una famiglia di immigrati antifascisti, era un sostenitore dell’unità nazionale e avversario del separatismo che in quel momento si proponeva come interlocutore degli americani.   
In quel guazzabuglio siciliano nasce il mito dello sbarco patrocinato dalla mafia che, a proprio vantaggio, gonfiò oltre ogni misura il peso dei suoi contatti con il Governo militare alleato instauratisi quando le truppe erano già approdate sull’isola. Un mito che Salvatore Lupo in questo libro intelligente demolisce in  maniera definitiva: “Nulla avalla l’idea che le armate alleate si sono presentate sul campo di battaglia forti di un accordo pregresso con la mafia”.