L’epigrafe che finalmente ci si è decisi a porre per tutti quegli ebrei fucilati anche a Forlì, è una memoria che fa ritrovare la nostra stessa identità. Non è un dovere ricordare; è anche l’indispensabile cammino da compiere per non perdere anche noi stessi. Ormai siamo stati tutti segnati da quello sterminio e non basta il trascorrere del tempo o la naturale voglia di vivere e nemmeno i nuovi grandi problemi del mondo per dimenticare e passare oltre. Gli ebrei sopravvissuti non sono stati abbandonati dall’angoscia, che spesso anzi li ha travolti nel suicidio di un’esistenza impossibile, ma per loro, ma anche per noi salvati, il ricordo che continuamente ritorna è la ripresa, anche individuale, della nostra storia, di ciò che amiamo. Fedelmente, perché convinti, non emozionati soltanto. E l’epigrafe, che fa tornare i Nomi propri, ci fa comprendere meglio che appunto così vanno ricordati: individualmente, come singoli; con il loro volto, direbbe Levinas. Certamente, dietro ciascuno di loro c’è il "problema ebraico”, la storia complessiva dei popoli, lo scontro delle culture e delle visioni del mondo; ed è appunto questo che li ha uccisi. Ma è ciascuno di loro che conta: basta uno solo. Anche -soprattutto- quando il corpo non è stato nemmeno identificato. Anche quando è indicato da una semplice sigla. Nemmeno il numero enorme, "sterminato”, dei sei milioni può oscurare nella quantità il significato di ciascuno di loro: l’uomo, come Dio, non fa numero. Come diceva la prof. Picciotto nel convegno di febbraio qui a Forlì, questa ricerca personale va in senso precisamente contrario al tentativo dell’odio nazista di soppressione assoluta e con l’epigrafe, appunto, riprendiamo il contatto personale con ciascuno di loro: tornano i Nomi. Ognuno -immortale e insostituibile- si aggiunge ai nomi più noti di Anna Frank, Danielle Casanova, Etty Hillesum... Rileggendo questi dei fucilati di Forlì si sentono risuonare le promesse non mantenute di Dio: Sara, “la principessa”; Israel, “Dio si mostri forte”, Levi, "Dio si legherà”. E i nomi di famiglia che invece ricordano le folli perversioni dell’uomo che li ha segregati nei ghetti delle città: Amsterdam, Morpurgo... Ogni loro Nome è così carico di storia e promesse. Per questo, credo che solo la biografia, il diario, le lettere siano il linguaggio più rispettoso e appropriato per questa memoria. Impediscono il generale astratto e costringono alle esistenze concrete. Premuniscono visceralmente dal conteggio falso della letteratura revisionista e rivelano, come lo yiddish di Singer, la lingua dell’esilio, la storia vera della gente povera e smarrita. Ma che proprio così ci giudica. Uno di loro, nel ghetto di Varsavia, ha lasciato scritto: “Ciò che non potevamo gridare in faccia al mondo, l’abbiamo nascosto sottoterra...”. Noi ora a Forlì sentiamo quel grido. Non si impara la Shoah sui libri, ma leggendo quei Nomi dell’epigrafe molti penseranno ai sintomi inquietanti del nostro tempo perché, come giustamente è stato detto, "quanti non ricordano il passato sono condannati a riviverne in futuro gli orrori”. Per molto meno di Rostock in passato avvenivano i pogrom. Il male esiste, minaccioso e potente, ma tutto dipende pur sempre dalla nostra libertà e dal coraggio di giocarsi. Quei Nomi dell’epigrafe non provocano uno sterile complesso di colpa (anche se tutti in qualche modo ne siamo responsabili) ma sommuovono la coscienza etica responsabile e attiva, che ci impedisce -come invece è stato nel ’33- di stare a guardare. E allora, il 2 novembre è vicino, come far conoscere quell’epigrafe ai nostri concittadini? La scuola è appena iniziata: come insegnare storia a chi non sa? Nell’attuale crisi della politica come ricordare il contributo degli ebrei alla storia della nostra Liberazione? don Sergio Sala