Noi, come voi...
I Parents’ Circle, oggi Families Forum*, si definiscono “un gruppo di famiglie in lutto che sostengono la pace, la riconciliazione e la tolleranza”.
Il fondatore, Yitzhak Frankenthal, è nato nel 1951 a Bnei Brak, Tel Aviv, in una famiglia ortodossa. Il 7 luglio 1994 il corpo di suo figlio Arik, 19 anni, venne rinvenuto in un villaggio vicino a Ramallah, crivellato di proiettili e ferite da accoltellamento. Arik, soldato dell’esercito israeliano ed ebreo ortodosso, stava andando a casa in congedo quando venne rapito e assassinato da alcuni membri di Hamas.
Arik aveva 19 anni. Stava tornando a casa dalla base militare, prese un taxi, dentro c’erano tre palestinesi, ma lui non li aveva riconosciuti perché erano vestiti da ebrei ortodossi e stavano ascoltando musica israeliana. Appena entrato in auto gli dissero che erano di Hamas, iniziò una colluttazione, l’autista fu colpito alla gamba, ma Arik fu colpito alla testa e quella fu la sua fine.
Quello stesso anno Frankenthal abbandonò il lavoro e fondò i Parents’ Circle, di cui è stato presidente fino al 2004.
Allora vivevo in un paesino non lontano dall’aeroporto Ben Gurion, un villaggio ortodosso. Iniziai a parlare coi miei amici circa la mia intenzione di iniziare a impegnarmi per una riconciliazione tra i due popoli. A un tratto mi ritrovai senza amici. Non riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una lettera inviata al primo ministro Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare a cercare una soluzione pacifica a questo conflitto. Rabin venne a trovarci a casa, diventammo amici.
In Israele la gente era sotto una forte pressione. Da un lato il governo di Yitzhak Rabin e Shimon Peres pareva fortemente impegnato nel processo di pace avviato a Oslo. Dall’altro tv e giornali sbattevano in prima pagina immagini di terrore, disperazione e morte. Tutti ricordavano le parole di Yitzhak Rabin alla Casa Bianca quello storico 13 settembre 1993, quando avvenne il primo incontro pubblico, aperto e ufficiale, con i leader palestinesi:
“Permettetemi di dirvi, palestinesi: noi siamo destinati a vivere assieme, sulla stessa terra. Noi, soldati tornati dalla battaglia macchiati di sangue, che abbiamo visto parenti e amici uccisi sotto i nostri occhi, che abbiamo presenziato ai loro funerali senza poter guardare negli occhi i loro genitori, noi che veniamo da un paese dove i genitori seppelliscono i figli, che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi. Noi oggi vi diciamo con parole chiare e a voce alta: basta sangue e lacrime. Basta”.
Non tutti però condivisero le successive considerazioni di Rabin.
“Non aneliamo alla vendetta. Non vi portiamo rancore. Noi, come voi, vogliamo solo poter costruire la nostra casa, piantare un albero, amare, vivere accanto a voi, in dignità, con empatia, come esseri umani, come uomini liberi. Oggi stiamo dando una possibilità alla pace e vi ripetiamo: preghiamo assieme che venga presto il giorno in cui tutti diremo ora basta, addio alle armi”.
L’Associazione per le Vittime del Terrorismo (Tva) era uno degli oppositori più strenui al processo avviato da Rabin. Ogni qualvolta c’era un attentato, l’associazione era là, all’entrata dell’ufficio del primo ministro, a esprimere la propria rabbia e disperazione con appelli alla vendetta e alla violenza contro i palestinesi. Anche il 7 luglio del 1994 erano là. Il brutale assassinio di Arik, un giovane soldato con un profilo così affine a quello dei coloni, certamente incoraggiò l’associazione ad alzare la propria voce. Tuttavia quel giorno qualcosa accadde, qualcosa di rivoluzionario. Il padre di Arik, anch’egli ebreo ortodosso, affrontò il gruppo dicendo: “Voi non rappresentate né me né la mia famiglia. Il mio giudaismo non ha nulla a che fare con vendetta e odio”.
Io sono un ebreo religioso, ortodosso, come si dice. Ma per me giudaismo significa pace, non occupazione. Dal mio punto di vista l’Occupazione è una forma di terrorismo. Tenere milioni di palestinesi senza uno Stato, senza un’economia, con l’80% di disoccupazione, senza permettere loro di muoversi liberamente... Se non è terrorismo questo… e la reazione sono i kamikaze. Ma li abbiamo spinti noi nell’angolo, noi li abbiamo portati alla disperazione.
Questa voce inedita venne presto seguita da altre famiglie in lutto. Il Forum era accanto a Rabin, Peres e Arafat quando a questi ultimi venne conferito il premio Nobel.
Era stato Rabin a invitarmi a seguirlo a Oslo. Proprio allora c’era stata una forte protesta da parte delle famiglie in lutto che gli chiedevano di interrompere ogni dialogo con i palestinesi. Quello stesso giorno mi recai da lui e gli dissi che quella gente non parlava a mio nome. “Mi faccia avere la lista delle famiglie colpite da un lutto a causa di questo conflitto e le troverò un gruppo di almeno quindici, venti persone che la pensano come me, che vi sosterranno”. Lui rise e espresse delle perplessità sul numero di persone che sarei riuscito a mettere assieme. Io però ribadii che ero sicuro di trovarne molte, “almeno quindici, venti”. Rispose che era impossibile. In realtà non potei ottenere la lista di queste famiglie, per via della legge sulla privacy. Andai allora in un’emeroteca e mi misi a guardare tutti i giornali dal 1977, anno in cui Begin era diventato primo ministro, fino al 1995, diciotto anni. Individuai 422 famiglie israeliane colpite da un lutto. Mandai una lettera a 350 di loro in cui facevo una precisa richiesta.
“So bene che tanti di voi pensano che non c’è con chi fare la pace e che mi considerano naïf perché io invece penso che si possa fare la pace con i palestinesi. So anche che la maggior parte di voi non è d’accordo con me, però ho ricevuto parecchie telefonate di genitori in lutto che mi hanno chiesto: perché non ci organizziamo?
Per questo motivo, vi indirizzo questa lettera. Mi scuso in anticipo se qualcuno di voi si offenderà per queste righe e spero che nessuno pensi che lo faccia per qualche scopo. Lo faccio solo per il bene del popolo israeliano e perché i nostri figli possano vivere in questo paese in pace e in sicurezza. Non sono un uomo politico, non sostengo nessun partito... Sono un uomo che ha perso la cosa più cara che aveva e vorrei proteggere altre famiglie da una simile tragedia. Vi chiedo di prendere parte a questo gruppo di famiglie in lutto che sostengono la pace e la necessità di dare ai palestinesi il diritto a vivere nel loro Stato, nella sicurezza di Israele”.
Un centinaio tornò indietro perché l’indirizzo non era corretto, ma 250 persone avevano ricevuto la mia lettera. Mi arrivarono due risposte molto brutte, che mi davano del pazzo, a dir poco, ma quarantaquattro risposero positivamente e con questi creammo un gruppo. Al primo incontro dissi loro che volevo provare a contattare anche qualche famiglia palestinese che fosse ugualmente decisa a lottare per la pace e la riconciliazione insieme a noi. Il primo incontro con una famiglia palestinese me lo ricordo ancora. Fu difficilissimo. Proprio sul piano emotivo. Quei genitori avevano perduto la figlioletta di soli tre mesi. Era stata uccisa dagli israeliani, certo non intenzionalmente, e tuttavia era morta a causa dell’Occupazione. Uscii da quell’appartamento in lacrime: una bambina di tre mesi. Arik aveva 19 anni, ameno lui era vissuto. Quella bambina era stata al mondo tre mesi…
Frankenthal era accanto a Rabin anche la tragica notte dell’assassinio.
Il 5 novembre 1995, durante le manifestazioni tenutesi a Tel Aviv, io parlai pubblicamente. Dieci minuti dopo Rabin venne assassinato. Finito il mio discorso, lui era venuto ad abbracciarmi e baciarmi e sua moglie aveva detto alla mia: “Guarda quanto si vogliono bene i due Yitzhak”.
Yitzhak Frankenthal scriverà una seconda lettera nel 2000, dopo la morte del più giovane dei figli dell’amico Roni Hirshenson, indirizzata agli abitanti di Netzarim. Una lettera aperta, durissima, nella quale censurava in termini gravi e amari la pervicacia con cui stavano abbarbicati al loro insediamento, situato nel cuore stesso di Gaza.
“Agli abitanti di Netzarim.
Stamattina alle otto ho ricevuto una telefonata dal mio caro amico e collega Roni Hirshenson che mi ha informato che suo figlio Elad si è suicidato. Ha lasciato una lettera in cui ha scritto che non poteva continuare a vivere dopo la morte del suo migliore amico David, ucciso a Netzarim...
Roni e Miri, i genitori di Elad, avevano già seppellito un figlio, Amir, ucciso nell’attentato di Beit Lid, nel gennaio del 1995 e ora ne stanno seppellendo un altro. Scrivo questa lettera dal profondo del cuore, scosso da una sorta di furia, e la mia anima trema al rumore dei sacchi di sabbia che verranno vuotati sulla sua bara. Guardate cos’è accaduto alla nostra gente e al nostro paese a causa della mancanza di pace… Ogni individuo sano di mente sa che Netzarim sarà uno degli insediamenti che andranno evacuati non appena tra noi e i palestinesi verrà raggiunta la pace… In nome della divina misericordia, perché mai volete continuare ad abitare questo luogo maledetto, al quale tante vite umane sono già state sacrificate? Dove sta l’amore che avete per i vostri figli, se poi mettete a rischio le loro esistenze? Avete ridotto il vostro messianismo alla difesa di un insediamento che niente ha a che fare con la sicurezza di Israele. Non ho bisogno della vostra compassione, voglio la vostra comprensione. Voglio che capiate che con le vostre azioni state provocando un numero infinito di tragedie per la gente di Israele. Non crederete davvero di star aiutando la sicurezza di Tel Aviv. I cittadini di Tel Aviv non hanno bisogno della vostra protezione. Hanno piuttosto bisogno di essere protetti da voi. Davvero pensate che Israele possa avere la sicurezza senza la pace, che ci potrà essere la pace senza dolorosi compromessi per entrambi? Al posto dei palestinesi forse non avremmo compiuto gli stessi attentati per avere un nostro Stato? Perché i palestinesi dovrebbero essere differenti? Di nuovo, per favore, non datemi del disfattista. Ho battagliato per la pace, assieme a Roni, per molti anni, proprio per evitare altre inutili e tragiche morti. Per noi la terra di Israele è importante e amata. Ma può la terra essere più importante di un essere umano? Cosa vi fa credere che questo dannato buco dimenticato da tutti -Netzarim- che già tante vite è costato, valga la vita dei figli che stiamo mandando al macello?”.
La lettera procedeva citando le parole della madre di Amir e Elad.
“Si è mai vista una madre seppellire non uno, ma due dei suoi figli? Li ho messi al mondo per dargli la vita. Li ho mandati a combattere nei loro anni migliori e mi sono tornati morti. Giusto una settimana fa gli avevo comperato un paio di scarpe. Non ha nemmeno fatto in tempo ad indossarle. Io sono una madre che si prende cura dei suoi figli… Con che cuore ora lo lascio qui? Avevo cinque figli. Me ne sono rimasti tre. Come farò a rientrare nella mia casa mentre Amir e Elad sono qui sul Monte Hertzel? A quale tomba farò visita per prima? Perché continuare a vivere? Non ne ho più la forza. Chi mai avrebbe potuto immaginare che a me sarebbe toccato due volte. Grazie a voi, coloni di Netzarim, una linea rossa è stata tracciata dal vostro insediamento al monte Hertzel. Ho cresciuto i miei figli perché contribuissero alla crescita e alla sicurezza del Paese e cosa ho avuto indietro? Due bare, due tombe ed entrambi avevano solo 19 anni, nessuno dei due è arrivato a 20. Non avrò più le loro maglie da stirare, i loro letti da rifare. Solo due stanze vuote”.
Yitzhak Frankenthal concludeva con un ultimo accorato appello:
“Prima di lasciare il cimitero, il caro Roni mi ha chiesto di scrivervi una lettera. Spero di essere riuscito, almeno in parte, a trasmettervi il dolore per la perdita dei nostri figli. Vi prego, per favore, prendete le vostre cose e tornate in Israele”.
I processi di riconciliazione sono spesso legati agli scenari post-bellici, tuttavia solo questo permette che entrambi i contendenti cambino in qualche modo la loro visione dell’altro, creando quella fiducia, che rappresenta il prerequisito di qualsiasi processo di pace che voglia ottenere il sostegno di entrambe le società.
Cosa significa riconciliazione? Per me vuol dire voltare pagina, essere pronti a dire: “Mi dispiace”, e offrire una compensazione, un risarcimento. E soprattutto essere pronti, ciascuno dentro di sé, a fare la pace, e anche a riconoscere che abbiamo sbagliato. Entrambi. Un mese prima che morisse, durante una discussione, Arik mi disse che se fosse stato un palestinese avrebbe ucciso i soldati israeliani, per ottenere uno Stato, come noi avevamo fatto con gli inglesi.
L’empatia verso il dolore provato anche dal “nemico” per la perdita dei propri cari è un passaggio chiave nel processo di riconciliazione. Solo il sentire assieme, la condivisione, può provocare quella “scossa emotiva”, (così l’ha definita Aaron Barnea), necessaria per impegnarsi a rivedere le proprie credenze e stereotipi. Consapevoli che “i nostri membri hanno tutti già pagato un prezzo molto alto” e che la linea di separazione non passa tra le due nazioni, ma tra chi persegue una pace giusta e chi no, i membri del Families Forum, che conta ormai un gruppo di 500 famiglie israeliane e palestinesi, non intendono limitarsi a offrire una pura testimonianza, per quanto esemplare, di dialogo improntato alla riconciliazione. L’associazione persegue i propri obiettivi attraverso iniziative concrete, tra cui, principalmente, gli incontri pubblici e nelle scuole, dove si cerca di dare un’idea meno semplificata del conflitto, e di aumentare la consapevolezza del prezzo pagato da entrambe le parti, anche attraverso la condivisione delle proprie storie e dei propri sentimenti.
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