1. La Cosa Russa e la Cosa Americana
A quasi due anni dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, mi rendo conto che il mio personale bilancio di ciò che ho compreso e di ciò che non ho compreso è particolarmente tormentato e contraddittorio: una serie di convinzioni che si sono, nel corso dei mesi, irrobustite; e una serie ancora più nutrita di domande che tendono a incrinare qualsiasi certezza acquisita. Non credo che la mia sia una condizione isolata.
Quelli che chiamerò Uopl (Umani Orientati al Progresso e alla Libertà) rivelano sintomi e disturbi da stress post-traumatico. Mi riferisco a quei cittadini che si collocano, o comunque vogliono continuare a collocarsi, nella parte sinistra dello schieramento politico; e che, dall’esperienza della guerra e dalla sua mancata elaborazione, ricavano uno stato di vero e proprio smarrimento, psicologico e ideologico.
Il 24 febbraio del 2022 si è consumata inesorabilmente l’era sovietica, fin nella sua ultima e miserabile metamorfosi: l’imperialismo russo si è mostrato, senza più infingimenti, esclusivamente come una macchina di distruzione e di morte. In quell’occasione, una quota degli Uopl portava a compimento la sua definitiva scissione e il suo estremo congedo da quanto era stato, per oltre un secolo, e attraverso notevoli rivolgimenti, il simbolo -meglio, il simulacro- della sinistra stessa: gli ultimi residui, cioè, della memoria della Rivoluzione d’Ottobre.
Si dirà: ma questo lavoro era stato già avviato, più di quarant’anni fa, dal Pci di Enrico Berlinguer, ed è perfettamente vero. Sopravviveva tuttavia un sentimento, un umore, uno stato d’animo che perpetuavano legami sottili, e spesso inconsci, con un deposito di emozioni e suggestioni capaci di influenzare le scelte politiche e intellettuali. Dai Soviet alla resistenza di Stalingrado, ai soldati russi che entrano nel lager di Auschwitz: tutto induceva a una sorta di tendenziale privilegiamento, a una opzione preferenziale, a una tentazione giustificatoria, ogni volta che la Cosa Russa si contrapponeva alla Cosa Americana.
Più che altro un sentimento, si diceva, ma assai forte. Con l’invasione dell’Ucraina si è consumato un ulteriore e profondo strappo: e una componente degli Uopl oggi riconosce che, tra Vladimir Putin e Joe Biden, può scegliere, finalmente -e serenamente- il secondo, senza che ciò faccia dimenticare, nemmeno per un istante, le grandi responsabilità, passate e presenti, dell’imperialismo americano. E Putin può diventare finalmente -e serenamente- il Nemico.
È così vero che la controversia più aspra all’interno degli Uopl verte proprio su questo punto: e, passati quasi due anni, sembra che la separazione dalla Cosa Russa, netta e inequivocabile per molti, non lo sia per tanti e, forse, per la maggioranza tra coloro che si vogliono di sinistra. Ma che cosa ha impedito e tuttora impedisce che la frattura con il “putinismo”, innanzitutto sul piano culturale e ideologico, sia totale e irreversibile?
In primo luogo, una radicata sottovalutazione del primato del sistema democratico rispetto a ogni altro sistema. Per considerare Putin il concentrato di tutto ciò che un democratico deve detestare potrebbe essere sufficiente il fatto che il suo potere assoluto duri da oltre vent’anni, consentendogli di fare strage di vite e di diritti.
Se tutto ciò non risulta sufficiente, è forse perché, come dice Massimo Recalcati, “l’inconscio di una certa sinistra detesta la democrazia”. Un’affermazione terribile ma, a mio avviso, non immotivata. Se, infatti, si approfondisce il discorso, si potrà scorgere una singolare presbiopia, che si fa relativismo etico e si esprime attraverso formule retoriche primitive. Come, a esempio, “anche in Occidente comandano sempre gli stessi”; “l’informazione è tutta in mano agli oligopoli”; “in Parlamento a decidere sono sempre le lobby”.
In altre parole, sembra sfuggire a molti che la democrazia più imperfetta (quella italiana, ma anche quella ucraina), in ragione della sua stessa natura, è preferibile a qualunque forma di autocrazia. Insomma, la guerra in Ucraina consente di andare al cuore della questione. Ovvero “sto con l’Ucraina perché sto con la democrazia”. Tantissimi (temo la maggioranza) tra gli Uopl non condividono questa impostazione “perché gli Usa…”, “Perché la Nato…”, “Perché l’Europa…”.
Hanno ragione nell’elencare le cause, le concause e i precedenti storici, ma hanno torto marcio nello sfuggire al tema centrale, che rappresenta la sostanza più vera della questione-guerra: il senso della democrazia, la sua qualità e la sua -come dire?- superiorità. Se si assumesse questo come discrimine, sarebbe almeno chiaro il tema della discussione: ciò che ci divide e ciò che ci unisce.
Una parte della sinistra si colloca su questa posizione, senza che ciò possa minimamente rassicurarla rispetto agli esiti della guerra, dal momento che lo scenario è decisamente confuso e le prospettive di arrivare anche solo a un cessate il fuoco appaiono assai esili. Dunque, come continuare a sostenere, anche militarmente, la resistenza senza che ciò determini la riproduzione all’infinito della spirale bellica? E come farsi protagonisti, insieme alla sinistra europea, di un percorso di tregua, negoziato, mediazione che produca colloqui bilaterali e multilaterali e conferenze internazionali e, finalmente, dia una chance alla pace?
Un’altra quota della sinistra, pur ribadendo stancamente che la Russia è l’invasore, si è ritagliata uno spazio di equidistanza (negata a parole, ma accettata nei fatti), una volta che la priorità è sempre e comunque la cessazione immediata delle ostilità. Le due sinistre si sono reciprocamente interdette e oggi è come se osservassero, azzittite e preoccupate, il proprio esaurimento nervoso.
A sua volta, anche il pacifismo politico rivela una disperante afasia. Esso conserva una sua vitalità nell’azione quotidiana, sotterranea e preziosa, ostinata e solidale, interreligiosa e interculturale, anche nei territori dell’Ucraina, ma resta incapace di farsi soggetto pubblico. In altre parole, l’esperienza della guerra continua a incidere in profondità nell’inconscio individuale e collettivo dell’Occidente, riproducendo la condizione di stress.
Come si diceva, la mancata elaborazione dell’immenso lutto che si consuma nei massacri in Ucraina produce, tra l’altro, due false rappresentazioni: che tutto stia accadendo per la prima volta (la prima dopo il 1945) e che si viva, ormai, nel dopoguerra. Queste due costruzioni mentali sono tragicamente fallaci: perché è già successo (Sarajevo, Srebrenica, Kosovo) e perché la guerra continua e il dopoguerra non è alle viste.
È questa inconsapevolezza che rende ancora più drammatico lo smarrimento della sinistra tutta e le impedisce di immaginare una strategia di pace fondata sulla resistenza dell’Ucraina e sulla sua capacità di indipendenza, anche militare. Un tempo era la guerra a “far maturare” (si diceva così) gli adolescenti -quelli che non vi perivano- e a renderli adulti. Oggi la guerra sembra rendere ancora più immatura la sinistra, riducendola irreparabilmente a puer aeternus.

2. Dalla parte delle vittime: la resistenza è ciò che resiste
L’invasione dell’Ucraina rappresenta, senza alcun dubbio, un discrimine nei processi di formazione degli orientamenti collettivi e del sentimento pubblico: e, per molti motivi, un evento dirimente tra un prima e un dopo, evidenziando questioni e sollecitando domande destinate ad accompagnarci nel tempo.
In altre parole, la guerra ha posto con forza alla riflessione comune domande che già la diffusione del coronavirus aveva iniziato a formulare. Domande radicali raramente consentite dal corso ordinario della vita quotidiana. Interrogativi “ultimi”, in quanto hanno a che fare con la nostra stessa costituzione psicologica e con la nostra stessa identità soggettiva: e afferiscono a coppie di concetti come violenza/nonviolenza, vita/morte, bene/male.
È accaduto così che, a seguito della sequenza micidiale pandemia-guerra, quelle domande si presentassero in maniera concretissima e con forza ineludibile. E che perdessero ogni contorno astratto, acquisendo una intensa dimensione politica ed esistenziale. Ciò contribuisce a spiegare lo stato di smarrimento di cui sopra, che si registra in molti settori dell’opinione pubblica e, in particolare, in quelli tradizionalmente orientati a sinistra. E questo ha portato a mettere in discussione il giudizio sulla natura stessa della guerra.
Così che, nel dibattito, dopo una premessa d’obbligo -quasi una clausola di stile- sul fatto che “c’è un aggressore e c’è un aggredito”, il successivo ragionamento ha portato a confondere questi due ruoli. Lo si è visto dal primo momento, quando una diffusa opinione e, ancor più, un diffuso umore, si sono impegnati a negare che quella degli ucraini fosse una vera Resistenza. Strano. Chi abbia letto Beppe Fenoglio ricorderà con quanta ansia le diverse formazioni partigiane attendessero e, poi, con quanto sollievo accogliessero i lanci dei rifornimenti (armi, attrezzature, tabacco) da parte degli aerei degli eserciti alleati. E quanto quelle provviste che piovevano dal cielo contribuissero a determinare il morale dei combattenti, la loro capacità militare e l’equilibrio dei rapporti di forza sul campo.
Di conseguenza, fatico a immaginare perché mai -pur essendo nel frattempo cambiato il mondo- inviare mezzi militari ai resistenti ucraini costituisca un errore irreparabile e un rischio mortale. Per me l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia è sacra, ma non riesco proprio a intendere le parole del suo presidente Gianfranco Pagliarulo quando, già nel marzo 2022, affermava che “l’invio di armi in Ucraina espone il nostro Paese a un grave pericolo”. E, dal contesto, si evince che ciò che si teme sia la rappresaglia contro l’Italia, oltre che l’acutizzarsi del conflitto.
La conseguenza ultima, ma coerentissima, di un simile ragionamento è quella di chiedere -qualcuno già lo fa- la resa immediata dell’Ucraina. Ma, con questa logica, si sarebbe dovuto rinunciare a gran parte delle azioni armate della Resistenza italiana contro il nazifascismo, con l’inevitabile mortificazione di qualunque ruolo del nostro Paese nella guerra di liberazione e di qualunque successiva ambizione all’indipendenza e alla sovranità nazionale.
La contraddizione che emerge da tutto ciò e che spiega l’atteggiamento dell’Anpi e di tanti militanti di sinistra, risiede esattamente nel fatto di negare alla mobilitazione popolare degli ucraini la definizione di Resistenza. Le motivazioni in proposito appaiono speciose e malferme. Tuttavia, quello che mi preme sottolineare non è tanto la debolezza di ognuna di queste argomentazioni, bensì l’ambiguità del punto di vista adottato. È un punto di vista che non pone al centro le vittime, i destinatari dell’offesa, i bersagli della violenza: non si concentra, cioè, sulla figura di chi subisce l’aggressione per fare di quella condizione di aggredito la ragione della sua volontà e capacità di resistere.
Esemplare di questa impostazione è il ragionamento di Luciano Canfora. Intervistato dalla nuova “Gazzetta del Mezzogiorno”, Canfora ha parlato dell’invasione russa dell’Ucraina come di “una guerra tra potenze”, nella quale “il torto sta dalla parte della potenza che vuole prevaricare”: cioè l’Ucraina. E ha definito “passanti” i profughi, aggiungendo che “la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta”.
Ho la sensazione che le opinioni di Canfora siano ampiamente condivise all’interno di quel mondo che chiamiamo “sinistra”, fino a costituire il sentimento prevalente di una parte di esso. In altri termini, è avvenuto, evidentemente, che nel corso del tempo quel mondo rinunciasse ad aderire alla condizione materiale della vittima e a farne suo il punto di vista.
Mirabilmente nelle parole di Canfora, e più sciattamente in quelle di altri, le vittime scompaiono. In un duplice senso: perché vengono rimosse dalla vista e dal discorso, in quanto sopraffatte dalla genealogia delle cause storiche, antropologiche, etniche, geografiche e diplomatiche, che spiegherebbero la “complessità” dell’evento fino a escludere la “nuda vita” e la cruda sofferenza. E perché le stesse vittime sono sollecitate a scomparire in quanto la loro sopravvivenza resistente incrementa il numero dei morti, prolunga il conflitto e, se aiutata dai mezzi militari dei Paesi europei, mette in pericolo “la sicurezza nazionale” di quegli stessi paesi. Ecco, almeno di questo rimango risolutamente convinto: il punto di vista delle vittime deve essere il nostro punto di vista.

3. La superbia della bontà
Un’altra domanda radicale imposta dal conflitto bellico è la seguente: che cosa sono disposto a fare di male per approssimare la pace? La domanda riguarda allo stesso modo l’individuo pacifista e l’individuo pacifico.
Davanti all’aggressore che brandisce la spada per colpire l’inerme, posso decidere di fare mio il disvalore della violenza e tacitare gli scrupoli morali, per salvaguardare l’incolumità della vittima e, dunque, il bene supremo della vita? Sono disposto, cioè, a farmi malvagio, a rinunciare alla mia mitezza e a ricorrere alla mia aggressività per tutelare l’aggredito? Accetto, quindi, di “non essere buono” e di abbandonare la superbia del mio stato morale per affondare le mani nel male, opponendo forza a forza, arma ad arma e violenza a violenza?
È, in realtà, la questione più drammatica, perché non si fonda su una presunzione di superiorità etica (il pacifismo rispetto alla resistenza, la nonviolenza rispetto all’uso della forza), bensì sulla disponibilità a rinunciarvi per un fine più grande di quello rappresentato dalla mia personale innocenza. Nella consapevolezza, oltretutto, che le decisioni che assumeremo saranno prevedibilmente non eque (ad esempio, potrebbero causare ulteriori lutti), in quanto esito inevitabile, come ha scritto Jürgen Habermas, di “scelte immorali”, perché non libere: imposte, cioè, da limiti esterni come il prevalere della violenza, la scarsità delle opzioni, l’esiguità del tempo e, ancora, la povertà di risorse.
Secondo dilemma: a cosa siamo disposti a rinunciare per approssimare la pace? Il governo di Volodymyr Zelensky ha assunto provvedimenti limitativi della libertà di espressione: come l’accorpamento di tutti i canali tv al fine di realizzare “un’unica piattaforma informativa”; poi, la sospensione delle attività di undici partiti di opposizione allo scopo di “tutelare la sicurezza nazionale”.
Una simile compressione delle garanzie costituzionali e dei diritti individuali, in una situazione eccezionale, richiama in qualche modo quanto accaduto in Italia durante la pandemia. A esempio, l’imposizione di particolari prescrizioni sanitarie e la sospensione del diritto al lavoro nel caso di inosservanza di determinati obblighi. Questioni assai delicate che il cittadino di un paese democratico deve poter discutere e criticare, commisurando la legittimità di quelle misure alle esigenze dell’emergenza.
E alla consapevolezza che, in tale circostanza, nel conflitto tra libertà individuale e salute pubblica può accadere che quest’ultima debba prevalere. Tanto più, verrebbe da dire, in uno stato di guerra. Chi vive direttamente in una condizione bellica, come i cittadini ucraini, può accettare che le libertà democratiche vengano ridotte per salvaguardare l’unità e la compattezza della resistenza popolare? E chi, come noi, ne è solo spettatore, può accettare che il governo Zelensky limiti autoritativamente la libertà di espressione senza che, per ciò, si neghi a quello stesso governo il nostro sostegno?
Come si vede, la riflessione sulla guerra non porta a rassicuranti certezze, bensì, al moltiplicarsi delle domande e dei dilemmi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha determinato conseguenze -nella geopolitica internazionale così come nelle nostre menti- non reversibili. Il quadro che ne risulta -nella geopolitica internazionale così come nelle nostre menti- è perturbante (proprio nell’accezione freudiana del termine). Ed è indubbio che non saranno nuovi luoghi comuni e nuovi stereotipi ad aiutarci a comprendere. Capire il tempo di guerra è un’impresa davvero improba.