Benedetta Tobagi
Riassumo brevemente la mia storia. Sono figlia di Walter Tobagi. Mio padre era un giornalista, inviato speciale del Corriere della Sera, ma anche uno storico, si è occupato soprattutto di storia del sindacato e dei movimenti della sinistra giovanile, era infine attivo nel sindacato di categoria, è stato presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. E’ stato assassinato il 28 maggio del 1980, da una neonata formazione terroristica di sinistra, attiva solo a Milano, la Brigata 28 Marzo, che voleva con quell’azione accreditarsi presso le Brigate Rosse. Il suo omicidio si colloca verso la fine della parabola del terrorismo.
Aggiungo un altro elemento personale, che ha condizionato molto la mia percezione di tutta questa vicenda: io allora ero una bambina, avevo tre anni. Non ho memoria diretta né di mio padre né del contesto in cui è maturato il suo omicidio. Un altro tratto peculiare dell’esperienza mia e di tanti altri che hanno subito esperienze simili è che la nostra vicenda è al tempo stesso privata e pubblica, le vittime del terrorismo in Italia si trovano in questo scomodo crocevia tra pubblico e privato, che entra come elemento molto condizionante nell’approccio alla questione del perdono e della riconciliazione. Un’altra peculiarità del “caso Tobagi” è che la vicenda giudiziaria si intreccia strettamente con il grande fenomeno del “pentitismo”, che si è palesato verso la fine del terrorismo e ha dato un contributo sostanziale alla disgregazione delle bande armate. Uno degli assassini di mio padre, Marco Barbone, è stato uno dei cosiddetti “grandi pentiti”, per cui la vicenda mia, personale e della mia famiglia, si intreccia con i feroci dibattiti scatenatisi intorno alla legislazione premiale…
L’uso del pentiti ha fatto molto discutere anche nell’ambito dei procedimenti che riguardano la criminalità organizzata, per cui è un tema ancora molto sensibile e di grande attualità.
Devo dire che io ho cominciato ad occuparmi di ciò che è successo a partire da un’esigenza personale, che poi naturalmente è confluita in gran parte in un’esperienza più ampia di testimonianza e di approfondimento: ho fatto degli studi prima filosofici, poi storici, perché era troppo forte l’esigenza di capire che cosa fosse successo nel Paese -proprio perché il mio lutto era anche una vicenda pubblica. Credo che si possa tracciare un’analogia tra l’esigenza psicologica di un giovane di capire la propria storia e quella di un’intera società di fare i conti col passato, di conoscere le proprie radici, anche per poter trovare una direzione sensata di sviluppo...
Oggi mi occupo e scrivo di questo passato doloroso, del terrorismo, che continua a essere presente nel dibattito pubblico. Ho scelto di impegnarmi anche in attività concrete per il recupero della memoria e per l’approfondimento della conoscenza storica di quel periodo. Esiste una fitta rete di soggetti e di iniziative che attraverso l’istituzione di centri di documentazione, archivi, “Case della memoria” contribuiscono indirettamente alla ricerca storica.
Vorrei fare una considerazione a partire dalla cronaca. A metà ottobre sul Corriere è uscito un articolo dal titolo “Il nodo resta la riconciliazione con le vittime”. Ecco, io credo che questo non sia vero.
Certo, le vittime e i familiari delle vittime del terrorismo sono moltissime, e questo è sicuramente un elemento molto sensibile, urticante, ma non dobbiamo dimenticare che quegli anni, diciamo dal ’69 ai primi anni ’80, sono stati molto “affollati”, per citare Gaber, un periodo molto complesso, molto inquieto, ma anche fecondo, dal punto di vista sociale, politico. Sicuramente anche molto traumatico per molti gruppi sociali, non solo per le vittime del terrorismo.
Quante esperienze di militanza e impegno politico sono “defunte”, schiacciate dalla situazione di emergenza e scontro frontale tra lo Stato e i terroristi? I lutti ...[continua]
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