L’assenteismo dei deputati dalla Camera ha prodotto una recrudescenza di accuse contro il Parlamento italiano.
I più accaniti denigratori non hanno tenuto alcun conto di una circostanza che pure ha il suo valore quando si vogliono emettere equi giudizi sulle istituzioni politiche di un dato paese e sul loro più o meno retto funzionamento. La circostanza è questa ed è ben nota: il parlamentarismo, cioè la degenerazione del regime parlamentare, non è male proprio ed esclusivo dell’Italia; altrove, non esclusi i paesi anglo-sassoni, assume forme svariate, ma certamente non meno deplorevoli di quelle che si constatano da noi.
In questo quarto d’ora ciò che biasimano aspramente i critici del Parlamento italiano è lo scarso numero di deputati che prendono parte alle discussioni delle interpellanze, delle leggi e dei bilanci dello stato.
Il fatto è innegabile e si è ripetuto varie volte e sotto vari ministeri; le spiegazioni che se ne danno non sono sempre esatte, ma di sicuro non sono uniche, poiché in questo caso, come in tutti gli altri fenomeni politico-sociali, i fattori che li generano sono diversi e spesso numerosissimi. Nel caso in discorso, ad esempio, gli uni sono deviati dalle feste; gli altri sono trattenuti a casa dalla scarsezza delle risorse economiche; taluni non sentono il bisogno d’incomodarsi, perché non vedono in pericolo i loro ideali, viceversa, non pochi, sfiduciati dalle patite sconfitte, non ripongono piede a Montecitorio per la sicurezza che hanno di non poter abbattere l’attuale, odiato ministero.
E numerose altre spiegazioni si potrebbero dare, ma non va dimenticata quella specie di stanchezza che segue sempre ai periodi di lotte vivaci e di sforzi continuati. Queste alternative, questo succedersi dell’azione alla reazione, per essere integrati i due movimenti dalla soluzione, secondo il linguaggio di Giuseppe Ferrari, si osservano sempre e dappertutto, nelle grandi e nelle piccole manifestazioni della vita politico-sociale. Più interessante e più proficuo dovrebbe riuscire lo studio dei rimedi adatti per combattere la degenerazione parlamentare.
Il fenomeno attualmente deplorato in Italia è dei meno gravi. Camere molto numerose negli ultimi anni si ebbero essendo al potere Francesco Crispi e il generale Pelloux. Ma chi oserebbe asserire che allora il Parlamento funzionasse meglio e riuscisse più utile di oggi?
Una riforma che riuscisse radicalmente utile per eliminare tutti i mali del parlamentarismo, dovrebbe essere troppo grandiosa e complessa; forse per compierla non basterebbero i mezzi e i procedimenti ordinari; certamente tale non riuscirebbe se non venisse accompagnata da una rinnovazione dello spirito pubblico, di quella vis a tergo che dovrebbe sospingere innanzi tutti gl’ingranaggi della macchina costituzionale, e che nei momenti opportuni dovrebbe trasformarsi nel potere che assegna premi e castighi ai meritevoli e ai reprobi. In Italia sopratutto occorrerebbe la trasformazione dei costumi politici degli elettori prima, più che di quelli degli eletti. Sono gli elettori infatti che, di ordinario, corrompono e paralizzano gli eletti; sono gli elettori che impongono la cura degli interessi personali e locali a scapito di quelli collettivi e nazionali; sono gli elettori che colle loro svariate richieste asserviscono, per vederle soddisfatte, i deputati a qualunque ministero.
Un rimedio speciale, e per così dire meccanico, all’inconveniente odierno si avrebbe nella riduzione del quorum cioè del numero dei deputati necessari per costituire il cosiddetto numero legale. Se si volesse imitare l’Inghilterra su questo particolare, appena appena cinque deputati sarebbero necessari per votare una legge o approvare un bilancio; e invece ce ne vogliono almeno duecento!
I benefici di questa riformetta sarebbero assai scarsi e non sostanziali; se ne avrebbero di gran lunga più importanti se si adottasse il regime vagheggiato e propugnato con tanto calore da quei grandi, da poco scomparsi, che risposero ai nomi di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, di Gabriele Rosa e di Alberto Mario.
Non credo che oggi si potrebbero ripetere le sciocchezze di una volta, quando nel federalismo si additava la guerra civile e la distruzione delle unità della Patria. Nessuno domanda una Confederazione di Stati, ma invoca uno Stato federale, che sarebbe una cosa ben diversa.
Collo Stato federale l’unità della Svizzera e degli Stati Uniti è cosa più che reale, più efficace, più poderosa che non sia in Italia.
Lo Stato federale, intanto permetterebbe o creerebbe i seguenti utili risultati:
-coesistenza logica e proficua di due Camere senza che l’una fosse o un freno all’altra o una inutile duplicazione;
-minore lavoro al centro e quindi minore durata delle sessioni parlamentari che dovrebbero occuparsi soltanto delle questioni veramente nazionali;
-possibilità di una diminuzione nel numero dei deputati nazionali e facilità di averli migliori;
-minori occasioni di ingerenze del Governo centrale nelle cose della periferia; donde una maggiore indipendenza degli eletti e un minor numero di occasioni di corruzione degli eletti e degli elettori;
-maggior competenza delle Camere regionali nella discussione degli interessi e delle questioni non nazionali; queste Camere regionali costituirebbero una vera scuola per l’educazione degli uomini politici;
-più viva e più diretta partecipazione del paese e dei deputati nelle discussioni dei parlamenti regionali e nazionali;
-limitazione della onnipotenza burocratica, più equo e più rapido disbrigo di tutti gli affari;
-separazione nella misura del giusto e del possibile tra la politica e l’amministrazione.
Se il regime federale venisse completato col diritto d’iniziativa e col referendum, si avrebbe una costituzione veramente democratica col maximum di governo diretto che si potrebbe avere in un grande Stato moderno.
Diceva Alberto Mario, e ripetono i repubblicani moderni, che colla monarchia non si avrebbero mai tali riforme che sarebbero più rispondenti alle tradizioni, alle condizioni geografiche, alle differenze economiche, intellettuali e morali che contraddistinguono l’Italia.
Ai monarchici il compito di dimostrare che la impossibilità denunziata dal Cavaliere della Democrazia è assolutamente insussistente.