Maffeo Pantaleoni

Ginevra, 5 marzo 1900

Carissimo,

Appunto, soltanto dagli amici si può chiedere che siano indulgenti se non si scrive loro! I guai sono tanti, il lavoro incalza, e il tempo basta appena per fare le cose che la necessità impone. Così è per noi tutti, e quindi anche per me. Eppoi, agli amici si può scrivere meno che agli altri, perché di tante cose si vorrebbe loro rendere conto; all’incontro, con gli estranei ci si sbriga subito, restando sullo stesso terreno dell’affare che a essi ci lega. Solo un tranquillo colloquio può soddisfare. Si ignorano le fasi per le quali è passato l’animo dell’amico, i dettagli delle sue vicende e si resta in possesso di una fotografia invecchiata, con la quale è possibile di parlare del passato, ma non dell’attuale. Non mi credete antiboero. Sono anglofilo. E non fo una questione di giustizia -pur non convenendo perciò che, se la si facesse, andrebbe decisa in favore dei boeri. Fo una questione di utilità più generale. Nel nuovo secolo o avremo il dominio tedesco, o quello russo, o quello americano, o quello inglese. Il russo è poco probabile, a così corta scadenza. Probabilissimo, quasi certo, quello germanico. Non può paralizzarlo la Francia. È facile che con la Russia si accordi. E così con l’America. Le sue forze sono minime. Non v’ha che l’Inghilterra che possa porre un freno alla dominazione tedesca. Ora, se venisse battuta in Africa, sarebbe finita. Sarebbe stato meglio evitare quella guerra. Ma, fu la Germania che armò materialmente e moralmente i boeri e scatenò quell’ira di Dio d’una burrasca sugli inglesi. Ora che la guerra c’è, se fossi ministro inglese, non la finirei che con lo sterminio della potenza boera. Occorre che per un secolo non ci sia più da pensare a loro. Chi domanda, oggi, se avessero la giustizia con loro i romani allorché conquisero Mitridate, o i Turchi allorché presero Costantinopoli, o i cavalieri dell’ordine teutonico allorché sterminarono con la spada e il fuoco gli slavi nella marca di Brandeburgo e nelle attuali provincie dette di Prussia orientale e occidentale? Chi domanderà di qui a 200 anni se avessero con loro la giustizia gli inglesi o i boeri? L’aveva Serse, o l’aveva Alessandro, o l’aveva Cesare, o Clodoveo. Chi pone simili questioni? Torno a dire: gl’italiani vedranno, pur troppo, cosa significano 60, forse 70, forse 80 milioni di tedeschi, disciplinati, ricchi, guerreschi, avidi di benessere materiale, coltissimi e spregiatori di ogni civiltà che non sia la loro, e violenti, e risoluti e brutali. Aspettate che muoia Francesco Giuseppe. Li vedrete nel Tirolo e a Trieste. Che m’importa dei boeri? Non sono loro che salveranno l’Italia. Il mondo non è maturo per la pace, e i pacifici saranno ancora distrutti dai non pacifici. Il giorno in cui gli converrà, Guglielmo, con l’istessa disinvoltura con cui ha sostenuto prima Krüger e poi la zia, e in frattempo il turco, da tutti facendosi pagare il servizio, sosterrà il Papa e manderà a gambe levate -se lo potrà- l’Italia liberale. È protestante, egli. Non importa, se il “baccish” è grosso. E avrà con sé la Germania cattolica, e indifferente quella protestante. Mio caro, nel discutere la politica internazionale, che altro punto di vista volete, se non il nostro, quando discorriamo noi? Che sono queste quarantottate nel 1900? Se l’Africa incivilisce -per opera inglese- e se la penisola balcanica incivilisce, noi ci ritroveremo in un grande centro di movimento commerciale e intellettuale, e torneremo ad avere la posizione che si ebbe ai bei tempi di Venezia. Una ferrovia dal Capo ad Alessandria, sebbene fatta dagli inglesi, sarebbe anche fatta per noi. E così dicasi di ogni altra opera loro in Egitto. Voi avete una grande opera sulle spalle nella lotta contro il Decreto. È opera che la storia del nostro paese ricorderà. Questo pensiero deve infondere coraggio a ognuno. Soccomberete? Eh, chi lo sa! L’ha da decidere il paese. E il paese cosa vuole? Chi lo sa?

 

Vostro aff. Mo
Maffeo Pantaleoni


Napoleone Colajanni
(da “Rivista Popolare di Politica Lettere e Scienze Sociali, n. 8, 30 aprile 1900)

Per la giustizia e per la utilità
(a proposito della guerra anglo-boera)


La mancanza di spazio che ha tiranneggiato la “Rivista” e la lotta dell’ostruzionismo che ha assorbito me sino ad ora, m’hanno impedito di tenere l’assunto impegno di rispondere all’amico e collega carissimo Maffeo Pantaleoni, la cui lettera, sintetica e suggestiva, ha avuto il meritato onore di richiamar l’attenzione della stampa europea.
Pur rispondendo alquanto tardivamente, né l’argomento si è invecchiato, né ha perduto affatto di attualità: dura ancora la guerra con alterne vicende e dureranno ancora per molto tempo le ragioni d’una discussione viva sulle sue cause e sulle sue conseguenze. L’indugio poi mi dà anche agio a rispondere ad altri, che per vari motivi stanno per gl’inglesi contro i boeri.
Non è possibile trattare questa interessante quistione senza accennare a un punto di vista che alcuni socialisti italiani e tedeschi hanno esposto manifestando le loro simpatie per gl’inglesi. In Inghilterra, anzi, non solo i socialisti del Partito indipendente del Lavoro e della Federazione democratica socialista, ma anche le Trade Unions si sono dichiarati contro la guerra scellerata.
Vi accenno separatamente perché non è quello del Pantaleoni; la tocco di volo perché, fortunatamente, non è quello della maggioranza del partito socialista e molto meno quello dei socialisti inglesi.
Dicono, adunque, questi dissidenti del socialismo che bisogna augurarsi il trionfo dell’Inghilterra per vedere più rapidamente sviluppare il sistema capitalistico o per non vederne, almeno, il temporaneo arresto. Quali le ragioni di queste tenerezze per lo sviluppo del capitalismo è noto: ne vogliono l’incremento rapido per poterlo sopprimere più presto, e vorrebbero anzi che tutti i capitalisti si fondessero in uno per poterlo abbattere di un colpo, tagliando una sola testa invece di cento. Essi parlano in nome del marxismo mummificato, che aspetta la massima concentrazione dei capitali e la massima proletarizzazione dei non-capitalisti per vederne sbocciare spontaneamente e fatalmente il collettivismo.
A costoro ha risposto chi non può essere sospettato di eresia nel socialismo marxista, Karl Kautsky (1). Non c’è da temere, egli osserva, che la disfatta dell’Inghilterra arresti lo sviluppo del capitalismo; nell’Africa indipendente si svolgerà nello stesso modo che nell’Africa inglese. Del resto se la indipendenza dell’Africa dovesse arrestare la marcia del capitalismo, all’avvenimento bisognerebbe prepararsi perché le colonie che raggiungono un alto sviluppo economico si distaccano dalla madre patria. L’America indipendente, soggiungo io, insegna come le colonie separatesi dalla metropoli inglese possano progredire in senso capitalistico.
E passo all’amico Pantaleoni.
Due sono i punti principali che emergono dalla lettera sua e che concordano colle idee da lui stesso manifestate nel “Secolo” e con quelle sostenute dal Pareto, dal De Viti De Marco e da altri economisti: 1°, che nel conflitto anglo-boero si deve astrarre da qualunque preconcetto di giustizia; 2°, che l’interesse italiano in particolare e quello della civiltà in generale devono fare augurare il trionfo dell’Inghilterra e l’esterminio dei Boeri. Attorno a questi due punti altri se ne affacciano che hanno secondaria importanza e che servono piuttosto a lumeggiare i primi.

Maffeo Pantaleoni anzitutto dubita che la giustizia -quella degli idealisti e degli utopisti della pace- stia dal lato dei Boeri. Ora il dubbio su questo punto non dovrebbe più essere possibile.
Se Krüger si preparava da qualche tempo alla guerra, se Krüger anche la precipitò, egli è, che il Presidente del Transwaal non è un minchione e non volle fare il comodo di Chamberlain e di Cecil Rhodes, che avrebbero desiderato di cogliere i Boeri alla sprovvista, per accopparli come hanno accoppato gli Zulù, i Cafri e altri popoli indigeni dell’Africa Australe. Krüger si preparò alla guerra, ch’era divenuta inevitabile dopo il brigantesco raid di Jameson. Se non vi si fosse preparato sarebbe stato un imbecille, che avrebbe lasciato prendere in trappola un piccolo popolo di eroi, come si farebbe di tanti sorci. Se precipitò la dichiarazione di guerra, agì da sagace politico, che visto inevitabile l’avvenimento, preferì prendere l’offensiva mentre gl’inglesi erano deboli, e non volle aspettare che la superiorità enorme del numero degli avversari avesse pesato nella bilancia sin dal primo momento.
L’escursione Jameson rivelò a tutti quali erano le intenzioni dell’imperialismo inglese; e le trattative lunghe e insidiose di Chamberlain con Kruger, accompagnate dal continuo invio di rinforzi inglesi al Capo, distruggono ogni traccia di sincerità e di buona fede nel primo. La storia di quelle trattative fatta dallo Stead nella “Review of Review”, e da tanti altri, prova luminosamente che esse nascondevano una volgare insidia, e che si aspettava, per romperle, che gl’inglesi fossero forti al Capo, e che la situazione militare fosse divenuta disastrosa pei Boeri.
In questa storia il punto nero, la macchia nera, per l’Inghilterra o meglio pel suo governo, sta sempre nella incursione Jameson. Se questa fosse avvenuta per semplice iniziativa di un qualsiasi filibustiere non avrebbe implicato la menoma responsabilità del governo inglese; in ogni modo dato il numero degli outlanders e la potenza di Cecil Rhodes, rimaneva in Krüger non il diritto, ma il dovere di premunirsi contro la ripetizione del disonesto tentativo. Se non si fosse premunito sarebbe stato o un inetto politico o un traditore del proprio paese. Ma la indecente larva di processo fatto al Jameson in Londra mostrò chiaramente che i governanti inglesi non potevano essere giudici del filibustiere, perché ne erano i complici. La complicità diretta e attiva con Cecil Rhodes, se non del Ministero inglese, almeno del Chamberlain nelle preparazione del raid, venne dimostrata e commentata dallo stesso Stead nell’accennata rivista, e in una apposita pubblicazione, e poi venne ripetuta sulle colonne dell’“Indipendance Belge” con maggiore libertà.
Si può osservare la difesa del Chamberlain, che la Camera dei Comuni trovò infondate le accuse mosse contro di lui. Accontentarsi di questo giudizio è davvero una ingenuità sorprendente. Un corpo politico sente sempre -e più che altrove in Inghilterra- le influenze della pubblica opinione; la quale come la pensasse fece intendere colle entusiastiche accoglienze di Londra a Cecil Rhodes e a Jameson. L’imperialismo col jingoismo (2) si erano impadroniti del popolo e del Parlamento; e dove entrano quelle due male bestie la giustizia imparziale viene scacciata come una intrusa inopportuna, che valgano i giudizi dei Parlamenti quando sono in giuoco loschi interessi e cieche passioni lo insegnarono gli ordini del giorno votati dalla Camera italiana sulla quistione morale.
La giustizia, adunque, stava e resta coi Boeri dal punto di vista del diritto internazionale. E che il buon diritto stia dalla parte dei Boeri lo riconosce un illustre cultore del diritto internazionali, il Catellani, che non è un sentimentalista, e che dopo avere esaltato il piccolo popolo dell’Africa Australe, fa voti pel trionfo degli inglesi in nome dell’interesse italiano (3). Se i Boeri, poi, a parte il loro valore e il loro eroismo, siano meritevoli delle simpatie dei popoli civili e di quanti amano la libertà e la giustizia uguale per tutti fu dimostrato in risposta al Demolins qui stesso colle parole del massimo storico vivente dell’Inghilterra: il Froude (4). E lo stesso Catellani saviamente ha osservato che non si chiese mai conto alla Russia e alle repubbliche americane dell’uso che avevano fatto della loro indipendenza. Fa pena vedere, inoltre, che s’insista ancora sulle crudeltà dei Boeri contro i Negri: essa è certa e deve condannarsi. Ma non si deve dimenticare che non c’è popolo europeo che sia senza peccato, e che abbia, quindi, il diritto di scagliare la prima pietra contro i peccatori; molto meno di tutti gl’inglesi, che nelle loro conquiste nell’Asia, nell’Australia, nell’Africa e nell’America, dovunque, hanno mostrato una efferatezza, una scelleratezza senza pari. È lo stesso Froude che confessa che per ogni Negro ucciso dai Boeri nell’Africa Australe gl’inglesi ne hanno uccisi dieci!
Gl’inglesi proclamarono Vittoria loro regina, la Pacifica, quando celebrarono il sessantesimo anno del suo regno. La storia, invece, dirà che mai tante guerre, tante conquiste e tante stragi furono compiute quante durante il suo regno. Epperò, se le imprese di uno Stato si possono impersonare in un individuo, con maggior ragione un giornale irlandese
-l’“Irishman”, se non erro- rappresentò Vittoria la pacifica come una rapace megera che con una falce in mano portava l’incendio e la devastazione sul mondo.
Purtroppo i sentimenti dei popoli civili verso i popoli inferiori rispondono a un generale pervertimento morale: quali siano, però, i sentimenti dei Boeri verso gli uomini nella stessa loro fase di civiltà si è potuto apprendere dal loro contegno nobile, generoso, umanitario verso i nemici del momento; contegno in contrasto spiccato colla durezza di cuore in molte occasioni dimostrata dai generali e dai soldati inglesi in questa stessa guerra. E senza tener conto della testimonianza di un ministro nord americano è bene si sappia che sono stati proprio gl’inglesi che hanno reso giustizia ripetutamente ai Boeri con una lealtà che li onora.
Reginald F. Collins, cappellano dell’esercito inglese, ad esempio, trovatosi a contatto coi Boeri a Spions Kop, scrisse di loro con vero entusiasmo: “Essi non esultavano pel successo militare: parlavano con angoscia dei soldati inglesi caduti; sentivano raccapriccio della vittoria; maledicevano la guerra presente, ch’è la guerra dei milionari ed esclamavano: “Noi siamo uomini di pace e vogliamo ritornare ai nostri campi, ai nostri focolari” (5). Ancora più entusiasticamente ha scritto nel “Daily News”, giornale imperialista, un suo corrispondente. Il linguaggio dei Boeri non è una posa, non è una ipocrisia, è la espressione sincera dei loro sentimenti riconosciuta dagli inglesi; e basta a farne un popolo moralmente superiore: superiorità splendidamente riconfermata col trattamento dei prigionieri inglesi. La indole dell’uomo, dice il Catellani, si riconosce nell’ebbrezza del vino o nei trasporti dell’ira. L’indole di un popolo più manifesta apparisce tra gli orrori della guerra. Irritati già dalle insidie della spedizione Jameson, minacciati ora nella stessa loro esistenza di popolo libero, vilipesi dalla stampa britannica come barbari e fedifraghi, i Boeri hanno pur saputo frenare ogni barbara tendenza di rappresaglia, e hanno condotto la guerra così da poter dare, anziché riceverne, lezioni all’Europa. Mentre gl’inglesi son bastonati a Lipsia e a Heidelberg, e insultati per le vie di Bordeaux, quantunque lo stato di pace perduri fra la Gran Bretagna, la Germania e la Repubblica francese, i privati inglesi hanno continuato a vivere indisturbati a Pretoria e a Bloemfontein dopo ch’era scoppiata la guerra. I prigionieri vi hanno trovato non solo un trattamento umano, ma una accoglienza cavalleresca; i feriti e i malati furono trattati secondo le regole della Convenzione di Ginevra rigorosamente applicate, e il tratto del generale Cronije, che fa passare ai feriti inglesi la parte migliore dei cibi preparati per le proprie truppe, fa sì che non si debba più lodare soltanto “la gran bontà dei cavalieri antichi”.
Ma in questo amore per la pace si deve invece scorgere un carattere che predestina i Boeri alla sconfitta e alla scomparsa? È l’avviso di Pantaleoni: “Il mondo non è maturo per la pace. I pacifici saranno distrutti dai non pacifici”, egli scrive.
Oh no! È innegabile il progresso morale, sebbene non grande, anche nei rapporti internazionali.
L’aggressione brutale dei pacifici, senza occasione, senza ricercato e artifizioso pretesto, da parte dei non-pacifici, non è più possibile. E quando i pacifici colla libertà e colla prosperità, saranno forti e valorosi come i Boeri, toglieranno la voglia ai non-pacifici di agire brigantescamente. Certo la Svizzera pacifica non sarebbe facile preda dei non-pacifici vicini; e quando tutti ci saremo adoperati, nella misura delle nostre forze, a far sì che l’Italia e la Francia adottino tutte le istituzioni della vicina repubblica, i pacifici pur coltivando l’ideale di giustizia e di moralità internazionale saranno in grado di respingere le scellerate aggressioni dei non-pacifici, poiché il diritto si troverà armato della forza. E ciò che si nota e si augura, astraendo da quelle considerazioni tecniche, economiche e psicologiche esposte dal De Bloch, che dimostrano sempre più improbabili le grandi guerre europee tra popoli civili.
Questo è uno degli aspetti della quistione della giustizia nel conflitto anglo-boero. Stia essa oppur no dal lato dei Boeri, in definitiva poco importa all’amico Pantaleoni; come poco importava se l’avessero dal lato loro i Romani e i Turchi, Serse o Alessandro, Cesare o Clodoveo, quando vinsero e soggiogarono i loro nemici.
Il ragionamento rigidamente egoistico, che è comune alla scuola economica del Pantaleoni, e che coincide in ciò coi suoi avversari del rigido materialismo storico, ha un difetto: rappresenta un anacronismo e nega tutto il progresso compiutosi nella evoluzione politica e morale. Si deride il Congresso dell’Aja, cui si contrappongono la guerra scoppiata all’indomani e la follia degli armamenti; ma si dimentica che non poche sono le controversie terminate in grazia delle nuove correnti pacifiche che pochi anni or sono avrebbero trovato la loro soluzione nella guerra. Se le nuove correnti corrispondono all’idea di giustizia, se questa non è scompagnata dalla utilità, se colla pace si possono conseguire gli stessi benefici risultati che altra volta si ottenevano colla guerra, quanti hanno mente e cuore elevati -e Maffeo Pantaleoni li ha elevatissimi- devono rinvigorire le nuove correnti colla loro azione, e preparare un ambiente sociale in cui i criteri immorali o amorali di una volta vengano eliminati e sostituiti da quelli morali, che si sono già delineati sull’orizzonte.

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Lasciamo da parte la giustizia che all’inizio del secolo XX pare debba essere buttata tra i ferrivecchi, e veniamo alle utilità generale e a quella particolare dell’Italia.

Che cosa può temere il nostro paese dalla sconfitta, o sperare dalla vittoria inglese?

Il Frassati nella Riforma sociale -cui rispose a suo tempo la “Rivista Popolare” (6)- un anonimo nella “Rivista politica e letteraria” (marzo 1900), il Catellani nella “Vita internazionale”, e altri altrove, ripetono la stessa antifona: la sconfitta inglese lascerebbe l’Italia isolata nel Mediterraneo; e, subordinatamente, arresterebbe o impedirebbe qualunque espansione coloniale nostra.

Non m’intrattengo sulla portata della vittoria dei Boeri dal punto di vista della potenza inglese. Si potrebbe ricordare che alla fine del secolo scorso nella proclamata indipendenza degli Stati Uniti si vide il finis Angliae; e si sa che i profeti fallirono.

Perché oggi la proclamazione della indipendenza dell’Africa australe dovrebbe avere per l’Inghilterra maggiori e più disastrose conseguenze che non abbia avuto un secolo fa un avvenimento tanto analogo a quello temuto oggi? Dalla fine del secolo scorso non è forse enormemente aumentata la potenza e la ricchezza della Gran Bretagna? Come mai, questa, se battuta dai Boeri, potrebbe perdere ogni influenza nel Mediterraneo? In un caso solo questa ipotesi si potrebbe verificare: qual caso in cui la guerra si prolungasse tanto da dar luogo a complicazioni europee e ridestasse lo spirito di ribellione in Egitto e nell’India. Ma sta precisamente nelle mani dell’Inghilterra evitare questa catastrofe venendo a una pace onorevole col valoroso popolo Boero e riacquistando con ciò tutte le simpatie, che va rapidamente perdendo nel mondo civile. Purtroppo l’evento non pare probabile: il jingoismo inglese è tanto folle e svergognato quanto lo chauvinismo francese! Forse si chiarisce peggiore in quest’ora grigia, che attraversa la grande nazione di oltre Manica. In Inghilterra popolo e governo proclamano concordi e alto, che la guerra non dovrà aver fine se non colla sottomissione incondizionata delle due repubbliche, e qualche giornale arriva a desiderare l’esterminio dei Boeri, anche a costo di far versare torrenti di sangue. Del resto, la pace, ristabilita comunque nell’Africa Australe, non farebbe che procrastinare la catastrofe.

Che un popolo di quaranta milioni possa perpetuamente dominare su circa quattrocento milioni di uomini sparsi in Africa, in Asia, in America e in Australia, è proprio cosa inverosimile. Dove più vasto è il dominio -nell’India- e dove è più recente -in Egitto- i segni di una non troppo lontana riscossa sono numerosi e gravi; la vittoria o la sconfitta nell’Africa Australe non potrebbero che ritardare o accelerare l’esplosione alla quale dovremo essere sempre preparati.

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E l’Italia deve subordinare la propria esistenza a quella della grandezza altrui? E in queste condizioni di subordinazione perpetua, la nostra sarebbe una vita vissuta nella indipendenza? Non ci pare! D’altronde conosciamo alla prova che cosa valga in dominio dell’Inghilterra sul Mediterraneo. Esso non ha impedito Tunisi, come domani non impedirebbe l’invasione francese della Tripolitania, se la perfida Albione vi trovasse il proprio tornaconto. Si esalta l’arrivo della flotta inglese in Genova quando Crispi inventò la spedizione francese… alla Spezia. Ma gl’inglesi avranno riso di gran cuore della nostra imbecillità, che fece loro attribuire il merito di un salvataggio contro un nemico immaginario. Se il nemico fosse stato reale, e reale il pericolo per l’Italia, è più che probabile -e il passato autorizza il sospetto- che il gabinetto di San Giacomo si sarebbe inteso col nostro avversario per avere dei compensi, per ottenere la sua buona fetta nella ipotetica spartizione del Regno d’Italia. È certo poi che Francesco Crispi, antico e convinto partigiano dell’alleanza inglese, esaltato forse dalla facilità cavalleresca colla quale da Londra si ordinò alla flotta in gita a Genova per impedire lo sbarco francese… alla Spezia, volle risolutamente tradurre in fatto le proprie aspirazioni e propose formalmente all’Inghilterra un’azione comune in Tunisia. L’Inghilterra si strinse nelle spalle e rispose: “picche!”. La politica preconizzata da Pantaleoni, da Catellani, da Frassati, come si vede, non è nuova; ma quando dal dominio inglese nel Mediterraneo, un uomo che voleva trarne i frutti a beneficio dell’Italia tentò di realizzarli, andò incontro ad un fiasco diplomatico colossale per opera e volontà… dell’Inghilterra. Con ragione, perciò, Ouida -un’inglese che ama l’Italia- ammonisce gl’italiani di nulla sperare dall’Inghilterra (“Nuova Antologia”, 1° dicembre 1899) e gl’italiani alla realtà sono stati richiamati dalla brutalità del Chamberlain, che vuole soppressa la lingua nostra in Malta a beneficio della lingua inglese.

Meglio ancora si può scorgere quale e quanta benevolenza abbia l’Inghilterra potente e onnipotente verso l’Italia nella politica coloniale nostra. Non parliamo di San Mun; è certo che se la nostra sospirata alleata avesse mostrato soltanto i denti, la spedizione nostra nella Baia non sarebbe riuscita così indecente e così umiliante; tanto indecente e tanto umiliante che soltanto gli italiani possono tollerare il governo che li ha in tal modo disonorati e resi ridicoli…

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C’è di meglio, ossia di peggio, per apprezzare la benevolenza dell’Inghilterra verso di noi. Essa ci cacciò nel Mare Rosso, perché così le riusciva comodo; ma quando ci trovammo impelagati nella sciagurata impresa africana, non solo l’Inghilterra ci lasciò soli, egoisticamente, negli imbarazzi, ma ci avversò recisamente. La concessione del passaggio per Zeila avrebbe potuto decidere diversamente delle sorti della campagna che teminò ad Adua, eppure ci rifiutò quella concessione, dopo avercela fatta sperare. Delle sue buone intenzioni poi, avremmo avuto prove indubbie alcuni anni prima quando si trattò della delimitazione dell’hinterland o della sfera d’influenza rispettiva. L’Inghilterra trattò l’Igtalia da nemica, da concorrente coloniale, senza che nemmeno in quella occasione ci sia stato il pretesto delle manovre e delle proteste francesi, come pel passaggio da Zeila. Soltanto questo aggregato di smemorati e d’incoscienti che si chiama popolo italiano, sui rapporti possibili con l’Inghilterra si può illudere dimenticando i fatti denunziati e le osservazioni di Edoardo Scarfoglio, e l’opuscolo schiacciante contro l’indegna condotta del governo inglese in Africa, del generale Gandolfi, che de visu, quale governatore dell’Eritrea, ebbe occasione di conoscerla e di sperimentarla (7).

L’amico Pantaleoni, che di politica coloniale a base di conquista non vuol saperne, vede altrove il danno che dalla sconfitta inglese verrebbe all’Italia. Egli teme che alla morte di Francesco Giuseppe gli ottanta milioni di tedeschi li vedremo nel Tirolo e a Trieste. A Trieste e nel Tirolo i tedeschi ci stanno già; oggi vi stanno sotto la divisa austriaca, e domani porteranno quella prussiana, un poco più caporalesca: ecco la differenza. Sotto il regime degli Hohenzollern e con un impero di 80 milioni, forse, a Trieste e nella Dalmazia sarebbe posto un freno più energico all’invasione slava, che, attualmente è peggiore della tedesca, perché fatta da gente più incivile, più fanatica e più intollerante.

Comunque, il cambiare padrone per Trieste e pel Tirolo non sarà una delizia; e l’una e l’altra probabilmente preferirebbero divenire italiani o essere costituiti in zona neutra, quasi a continuazione della Svizzera sino all’Adriatico. Ma si può credere sul serio -dato l’avvento di un Impero Germanico comprendente la parte tedesca dell’attuale impero austriaco- che l’Inghilterra si prenderebbe la briga di movergli guerra per arrestarne la marcia su Trieste? Siamo nel campo delle ipotesi e tutte le ipotesi sono sostenibili; però, giudicando dal passato, alla domanda si dovrebbe dare risposta assolutamente negativa. La zia e il nipote, Vittoria e Guglielmo, si metterebbero di accordo facilmente in base al sistema utilitario dei compensi a spese altrui. Così hanno fatto altrove ed altra volta. Se questo passaggio di dominio di Trieste dall’Austria alla Germania è un avvenimento pauroso, di sicuro esso non potrebbe essere impedito dall’Inghilterra, ma da una politica che, facendo uscire l’Italia dall’assservimento della Triplice, creasse un serio ostacolo alla prepotenza tedesca contro di essa aggruppando tutti i sentimenti e tutti gl’interessi, che fermentano -e non sono pochi- a Oriente, al Nord e all’Ovest della Germania.

Di questa politica in Italia non si vedono gli albori; invece dolorosamente dobbiamo constatare che il governo nostro, all’estero e dall’interno, segue un indirizzo tale da doverci mettere in pensiero non solo per la discesa dei prussiani a Trieste, ma anche, e più, per la conservazione della Sardegna e della Sicilia. A conservare queste isole, più che nell’aiuto e nella protezione altrui, si deve confidare nei cittadini, assicurando loro quella libertà e quel benessere materiale che danno l’energia morale che non ci fece difetto in altri tempi, e di cui oggi ci offrano splendido esempio i Boeri. Per mandare a gambe in aria l’Italia non occorre l’azione di Gugliemo II; bastano i governanti italiani, i quali sono riusciti a creare un pericolo clericale, quale mai per lo passato era esistito. Questa è la verità, che non dobbiamo mai perdere di vista e che invano da parte mia da anni vado predicando.

Dr. N. Colajanni

(la fine nel prossimo numero)
 


SECONDA PARTE

(da “Rivista Popolare di Politica Lettere e Scienze Sociali, n. 9, 15 maggio 1900)

Per la giustizia e per la utilità

(a proposito della guerra anglo-boera)

(continuazione, vedi num. 8)

Ma il Pantaleoni non vede soltanto il lato negativo della sconfitta degli inglesi ed esamina pure quello positivo della loro vittoria nei rispetti degli interessi italiani. “Se l’Africa incivilisce per opera inglese, egli dice, e se la penisola balcanica incivilisce, noi ci ritroveremo in un grande centro di movimento commerciale e intellettuale e torneremo ad avere la posizione che si ebbe ai bei tempi di Venezia. Una ferrovia dal Capo ad Alessandria, sebbene fatta dagli inglesi, sarebbe anche fatta per noi. E così dicasi di ogni altra opera loro in Egitto”. Lasciamo stare da parte l’incivilimento della penisola balcanica; dopo la solenne denunzia della barbarie turca in Bulgaria fatta dal Gladstone, della pensiola balcanica gl’inglesi si curarono poco; del suo incivilimento -per modo di dire- si curarono maggiormente i russi. In quanto alla ferrovia dal Capo ad Alessandria è cosa molto di là da venire, e che verrà indubbiamente, con o senza la vittoria degli inglesi, se la ragione economica e la possibilità tecnica la consiglieranno.

Il grande avvenimento ridarà la ricchezza, la grandezza a Venezia e per essa all’Italia? Se il fatto dovrà essere il risultato della nostra posizione geografica c’è da dubitarne molto: Nauplia, Salonicchio si troveranno più vicini ad Alessandria, in più diretta comunicazione coll’Europa centrale e settentrionale. Già si parla di far deviare da Brindisi a Nauplia la famosa valigia delle Indie, che del resto in tanti anni ci ha dato abbastanza fumo e pochissimo arrosto. Gl’Inglesi stanno già in Egitto da circa 18 anni, e vi hanno compiuto una splendida opera di risorgimento finanziario; ma Venezia e l’Italia non ne hanno risentito che scarsissimo, per non dire nessun vantaggio, l’unico a giovarsene è stato il Com. Morana, che in premio dei servizi resi a Depretis ed al trasformismo, venne chiamato a far parte della Commissione amministrativa dei fondi pel debito pubblico egiziano! Da che gl’inglesi stanno in Egitto l’influenza politica economica e linguistica dell’Italia vi è in ribasso o non si svolge nelle dovute proporzioni. Questo è l’insegnamento della storia e della statistica. Le quali ci dicono altresì che le cause della prosperità economica e della potenza politica vanno cercate e promosse all’interno. Valga un esempio: il commercio di Massaua non è una gran cosa; quale che esso sia, in prevalenza dovrebbe essere nelle nostre mani. Invece ci predominano Trieste e gli Austriaci, perché a noi difettano le condizioni intime -capitali, coltura tecnica, iniziativa- che dovrebbero assicurarcene il monopolio di fatto. Epperò il grande avvenimento della ferrovia trans-africana, quando verrà, aprendo ai commerci il continente nero, all’Italia gioverà nella misura in cui il suo sviluppo interno le potrà consentire; e nella stessa misura in cui si giova dell’apertura dell’Africa settentrionale, per opera dei francesi. Probabilmente, come è avvenuto a Tunisi e in Algeri, l’Italia vi manderà lavoratori, di cui è grande e inesauribile produttrice.

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Nella tesi del Pantaleoni c’è un lato più generale di quello italiano; lato che assume quasi parvenza sentimentale nel Catellani. Che sarebbe della civiltà, della libertà del mondo colla diminuzione dell’influenza inglese? E all’Inghilterra specialmente il Catellani accorda benemerenze e missioni o insussistenti o esagerate.

“Nel nuovo secolo, scrive Pantaleoni, o avremo il dominio tedesco, o quello russo o quello americano, o quello inglese. Il russo è poco probabile a così corta scadenza. Probabilissimo, quasi certo, quello germanico. Non può paralizzarlo la Francia. È facile che con la Russia si accordi. E così con l’America. Non v’ha che l’Inghilterra che possa porre un freno alla dominazione tedesca. Ora se venisse battuta in Africa, sarebbe finita”.

Ho esaminato l’ipotesi delle conseguenze della sconfitta inglese in Africa: non dovrebbero essere così tristi come si assicura, se la guerra finirà prima che sorgano più gravi complicazioni europee. Vengo ai freni del dominio tedesco. L’amico Pantaleoni mi pare che abbia innanzi agli occhi quello che il Medley chiamò The German Boyey, lo spauracchio tedesco. Con ciò arriva quasi a rendere responsabile dell’attuale resistenza boera il famoso telegramma di Guglielmo II a Kruger all’epoca del raid Jameson. Ma l’esodo eroico dei boeri dal Capo e dal Natal verso l’Orange e verso il Transvaal ebbe forse bisogno d’incoraggiamenti tedeschi per verificarsi? E la resistenza armata del 1881, a difesa della libertà e dell’indipendenza, che condusse a Majuba Hill, forse fu determinata da Guglielmo II che non era ancora imperatore?

Ritornando al timore del dominio tedesco, come pregiudiziale osservo che nel secolo XX non mi sembrano più possibili e pensabili di dominii universali. Il loro tempo è finito. Fallirono, tenendo conto della durata, Cesare e Carlomagno; fallirono Carlo V e Napoleone I, e non pare che possa e debba essere più fortunato Guglielmo II e qualunque suo altro successore.

Se i tedeschi possono formare un impero con 80 milioni d’abitanti, possono costruire una confederazione di altri 80 milioni i latini; ai quali necessariamente si unirebbero e i Boemi e gli Ungheresi a sud-est, e la Scandinavia al Nord e la Svizzera al Sud-Ovest.

Oh! dei freni non mancherebbero; sarebbe impotente la Francia isolata; sarebbe fortissima, e assai più adatta dell’Inghilterra, potenza esclusivamente marittima, se unita ai latini ed agli altri popoli che hanno già ragione di odiare la Germania o dovrebbero temerla onnipotente.

L’accordo della Germania colla Russia è tra i meno probabili avvenimenti: Tolstoi in Guerra e Pace rappresentò meglio di qualunque filosofo della storia la psicologia del loro antagonismo, che da molti anni in qua si è andato svolgendo e consolidando. Ma se all’accordo venissero, e per soprassello a entrambi si unisse l’America, è chiaro che l’Inghilterra alla sua volta sarebbe impotente da sola, avrebbe bisogno di alleati e nell’interesse attuale della civiltà potrebbe e dovrebbe trovarli tra i latini, come li trovò nella guerra di Crimea contro il colosso russo.

Li troverebbe sicuramente, se rinunziasse anch’essa alla pretesa di dominazione universale e facesse il dovuto posto nel Mediterraneo ai latini, che vi stanno di casa. Oh! Questa davvero sarebbe l’alleanza più logica e più naturale nell’interesse della civiltà e della libertà; e a questa si verrebbe se Francia e Inghilterra, che attualmente corrono il palio per il primato nella prepotenza, non fossero possedute entrambi dal demone maledetto dell’imperialismo, e del militarismo, che col primo fa tutt’uno!

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Eccomi in ultimo al Catellani, il cui scritto, rappresenta la perorazione alquanto sentimentale in difesa dell’Inghilterra.

Per l’illustre professore padovano una indicazione del posto da prendere vien data dalla qualità di coloro che simpatizzano pei Boeri.

“La reazione in Germania, in Russia, in Francia, sta per le due repubbliche Sud-africane; dunque bisogna, nell’interesse della libertà e della civiltà far voti per l’Inghilterra”.

Su per giù questo pare l’avviso di Max Muller. Il dotto professore di Oxford nella “Deutsche revue” (1° aprile), quasi anticipata risposta alla requisitoria anglofoba di Mommsen, ha sostenuto che i Boeri e Kruger non hanno diritto ad alcuna simpatia. Egli non vede in coloro che li difendono che degli avvocati pagati e ignoranti.

Qui è evidente la confusione e la generalizzazione. Anzitutto in Germania anche la massa dei socialisti sta pei Boeri; in Italia tutte le gradazioni della democrazia, e non i soli clericali, stanno pei Boeri, e della causa dei transwaaliani ha fatto una vigorosa difesa il Lombroso (“Nuova Antologia”, 16 aprile); in Francia i lottatori meravigliosi ontro lo Stato maggiore, contro il militarismo, contro il gesuitismo -da Jaurès a De Pressensè- stanno pei Boeri; negli Stati Uniti, dove le cause speciali di antagonismo che agiscono in Germania e in Francia non esistono, una grande corrente in favore dei Boeri si è determinata; e, che più? Gli stessi socialisti e democratici inglesi, qualche conservatore come Clarke, i migliori del partito liberale -e Stead, Harrison, Channing, Maddison, Morley, Harcouri, ecc. ecc. e il più grande dei filosofi viventi, Hebert Spencer, e le Trades Unions stanno per i Boeri.

Questo solo si potrebbe concludere dall’esame dei fatti: la condotta dell’Inghilterra nell’Africa australe ha avuto il merito di confondere nella medesima avversione contro di essa i clericali e i progressisti, i reazionari e i democratici!

Bel risultato davvero per una nazione, che dovrebbe passare per antesignana della democrazia e della libertà!

Ma il Catellani rincalza rimproverando alla Germania la prepotenza a danno dei polacchi, dei danesi e dei francesi dell’Alsazia-Lorena; alla Russia le deportazioni in Siberia e nell’isola di Sakaline; alla Francia la malafede e la violenza nel Madagascar, l’affaire Dreyfus, la preparazione di una nuova Sanite Barthelemy contro gli ebrei e contro i protestanti… Meno male che nulla può rimproverare ai democratici italiani!

Tutti questi rimproveri sono ben fondati e ben meritati. Ma le scelleratezze e il brigantaggio collettivo esercitato dalle altre nazioni assolvono forse l’Inghilterra dalle scelleratezze e dal brigantaggio da essa esercitato in tutte le parti del mondo?

La storia delle sue conquiste coloniali è conosciutissima. Quella dell’India l’ha scritta in un libro famoso un inglese, Hyndmann, e l’ha riassunta ora nella “Westminster Gazette”; e disonora l’Inghilterra. Mommsen -è un tedesco, ma nessuno vorrà disprezzare il suo giudizio- assicura che la guerra col Transwaal vale, in infamia, parecchi affaires Dreyfus. E lord Clive e Warren Hastings, questi grandi ladroni senza coscienza e senza pudore, se non isbaglio erano inglesi… E sotto la più iniqua tirannide dell’Inghilterra per tre secoli circa è vissuta l’Isola Verde, che dalla disumana e spietata Sua Signora è divisa dal canale di San Giorgio, e ne costituisce, geograficamente, un appendice. Ivi ad una volta l’Inghilterra nel modo più completo e più armonico -sinistra armonia!- ha esercitato la tirannia politica e religiosa ed economica…

Certamente le condizioni dell’Irlanda oggi sono assai migliorate -sopratutto per opera di quel Gladstone che voleva veder trionfare lo spirito di giustizia nei rapporti coi Boeri-; e lo ricorda, compiacendosene, il Catellani. Ma egli stesso se vuole porre innanzi all’Inghilterra un pericolo e un disonore, consigliandone di mostrarsi generosa e di venire a una pace onorevole pei Boeri, ricorda ciò che altre riviste inglesi e lo storico Froude hanno già rammentato: “Una nuova Irlanda formatasi ai suoi danni nell’Africa del Sud, sarebbe per lei oggi un trionfo apparente e nel futuro una grave minaccia…”.

L’Anglofilia, infine, deve trovare alimento e giustificazione in un motivo sentimentale, che ha la sua efficienza materiale, economica e che ha per me un grandissimo valore. “Se l’Inghilterra”, aggiunge il Catellani, “venisse sconfitta mancherebbe in Europa la preponderanza di un paese ch’è stato la culla delle libertà politiche, che dopo il 1815 ha frenato gli eccessi reazioni della Santa Alleanza; che ha favorito l’emancipazione della Grecia e quella dell’Italia; che dalla lotta per l’abolizione della schiavitù, a quella contro l’intolleranza di razza e di fede, fu acclamata come maestra da tutti i fautori della libertà”.

Chiunque conosce la storia contemporanea non può sentire che viva ammirazione per quello che ha fatto l’Inghilterra in pro della libertà e della nazionalità oppresse; ma l’ammirazione deve trovare i suoi limiti nella realtà. Le glorie e le benemerenze sono frammischiate colle pagine vituperevoli e coi demeriti e, nel libro del dare e dell’avere non si possono strappare le une per lasciare risplendere le altre; il passato non può cancellare il presente, e se mai il primo deve servire di richiamo a più retta attitudine. Se il passato valesse a canellare il presente, né in Italia, né altrove avrebbe potuto muoversi rimprovero acerbo e meritato alla Francia per l’affaire Dreyfus, poiché all’attivo stanno e lo aiuto dato alle colonie Nord-Americane contro l’Inghilterra e le glorie dell’89, e, per l’Italia in ispecie, Magenta e Solferino he nella bilancia devono pesare di più della platonica simpatia e del contributo negativo che la Gran Bretagna presto al nostro risorgimento nazionale (8).

Vere e grandi sono le benemerenze dell’Inghilterra; ma non cancellano le brutture della guerra colle colonie del Nord-America; e il presente è tanto brutto, che lo Stead rileva che proprio agli americani la politica di Chamberlain ha ricordato che Giorgio III non è morto!

Bella fu la campagna per l’abolizione della schiavitù condotta da Wilberforce e coronata dal successo; ma fu l’Inghilterra che manifestò le sue non platoniche simpatie per gli schiavisti nella guerra di Secessione e che li procurò l’onta e il danno dell’arbitrato per l’Alabama. Si ammiri pure il risveglio inglese contro la Santa Alleanza; ma lord Castlereagh n’era stato uno dei fattori principali, e si deve al pazzo Giorgio III, che per disgrazia dell’umanità regnò per oltre quarant’anni, la guerra spietata alla rivoluzione francese, ch’ebbe tanti tristi conseguenze -non ultima la Santa Alleanza. Gli italiani specialmente non devono e non possono dimenticare in quest’ora di sdilinquimenti anglofili che Nelson e la sua Emma Lyona rinnovarono nel golfo di Napoli le gesta neroniane a sostegno della efferata tirannide e libidine della coppia borbonica; che per bassa gelosia iniquamente, violando i patti conclusi dal Cardinale Ruffo e contro la volontà di quest’ultimo, si procurarono la voluttà d’impiccare a un’antenna l’ammiraglio Caracciolo.

Tutti ricordano lord Byron combattente per la Grecia e Gladstone che riunisce le isole Joniche alla gran madre Ellenia; ma l’Inghilterra ha sulla coscienza Parga e la guerra di Crimea per conservare in vita il grande ammalato danno di tanti popoli, per isventura dei poveri armeni massacrati e tormentati barbaramente. E se essa abbandonò le isole Joniche prese Cirpo e non si sa se restituirà Creta.

Questa la verità intera, che non può essere smentita e distrutta da alcuna calorosa, convinta e disinteressata apologia. E la storia vera insegna che l’Inghilterra fu volta a volta umanitaria e scellerata, generosa e rapace, maestra di libertà e puntello di tirannide. Si direbbe se si volesse malignare, che quando essa fu umanitaria, lo fu per tornaconto…

Gloria eterna all’Inghilterra che ha dato asilo ai profughi del mondo intero e che conserva ancora un culto per il grande che riposa a Staglieno; gloria eterna all’Inghilterra, che procedette fiera alle graduali conquiste della libertà, e che della libertà ha saputo assicurare i benefizi anche agli anarchici messi al bando dall’Europa; gloria imperitura, soprattutto a quell’Inghilterra che potè essere liberale e democratica perché seppe sottrarsi agli artigli mortali del militarismo. Ma è dovere di quelli stessi, che l’amano e l’ammirano, levare alta la voce per richiamarla alle sue nobili e antiche tradizioni nel momento in cui si è messa sulla china fatale dell’Imperialismo e del Militarismo, con una ripercussione fatale e disastrosa della politica aggressiva sua sulla politica degli altri Stati e soprattutto sulla sua politica interna (9). L’imperialismo conduce per la mano il Militarismo, e questo, trionfando, definitivamente, preparerà rapidamente la degenerazione delle istituzioni e della vita politica dell’Inghilterra. Il concatenamento fatale tra siffatti avvenimenti è stato da anni dimostrato da Spencer, il grande filosofo inglese, che melanconicamente constat e descrisse i primi accenni della trasformazione, e profetizzò, se fosse continuato il cammino, sulla via disonesta e violenta del Militrismo, la morte della libertà (10).

A che punto si sia arrivati sulla via disastrosa della degenerazione militarista si scorgerà da questi tratti. Non tenendo conto delle spese militari attuali, il cui enorme aumento si può considerare come un bisogno eccezionale, ciò che deve allarmare maggiormente è il cammino che ha fatto l’idea della coscrizione forzata e della necessità di una trasformazione e di un considerevole sviluppo dell’esercito permanente.

Sintomi eloquenti di questa nuova tendenza sono: la grande popolarità del rinnegato Chamberlain a scapito dello stesso Salisbury -il quale quantunque conservatore non si mostra abbastanza entusiasta dell’Imperialismo- il malcontento nelle fila dei conservatori, di cui è indice la dimissione di lord Durham dalla Presidenza della North Country Unionist Association perché giudica imprevidenti e poco energici nel condurre la guerra i ministri attuali; l’accessione di lord Roseberry -l’antico leader dei wighs- del degenere figlio di Gladstone e di molti altri membri del partito liberale, all’Imperialismo. E Swinburne, l’amico di Mazzini, dà la mano a Rudyard Kipling, il poeta del militarismo! È stato lord Roseberry, infine, il più insistente ed energico nel gridare che l’adozione della coscrizione obbligatoria è divenuta per l’Inghilterra: una quistione di vita o di morte!

Egli ha ragione. Se l’Inghilterra deve continuare nella politica di violenza e di brigantaggio internazionale non può confidare nel sistema militare attuale; non può continuare nel sistema degli arruolamenti dei mercenari, specialmente se dovrà misurarsi non con nemici barbari, ma con popoli civili. La fine di Cartagine non potrebbe mancarle.

Ma la istituzione di un esercito permanente e della coscrizione militare segnerebbero il principio di una trasformazione politica profonda.

L’Inghilterra perderebbe il carattere essenziale -l’assenza di vero militarismo- che le ha permesso dal 1688 in poi una pacifica e continua evoluzione in senso democratico, e che della sua monarchia nominale ha fatto una repubblica vera -quale la considerarono Disraeli, Bagehot e tanti altri: coll’esercito permanente e colla coscrizione militare obbligatoria comincerebbe l’agonia della libertà.

Indubbiamente, osserva Jean de Bloch nella “Contemporary Review” (marzo), l’Inghilterr deve la presente prosperità politica ed economica alla mancanza di coscrizione obbligatoria. La trasformazione è appena iniziata, se ne scorge appena l’embrione ideale, e nello spirito pubblico intanto si scorgono due segni delle conseguenze degenerative del Militarismo: l’intolleranza e il jingoismo.

L’intolleranza è divenuta furibonda. Si sono licenziati i redattori del “Daily Chronicle”, Massingham, Spender e Nash, e Crook direttore dell’Echo perché contrari alla guerra dei milionari; si costrinse il conservatore Clarke a dare le dimissioni da deputato solo perché non posseduto dalla generale follia; s’insultano e si maltrattano coloro che osano manifestare un pensiero discorde dell’Imperialismo.

Lo Stead ha enumerato una lunga serie di comizi sciolti o impediti colla violenza del popolo, perché i promotori erano avversari della guerra; le violenze arrivarono al furore contro il comizio di Scarboroug. Perciò il valoroso pubblicista, che della stampa ha fatto un vero apostolato, più che dai sacrifizi materiali che impone la presente guerra, si preoccupa dei maggiori sacrifizi in materia di libertà di parola, di discussione, di pensiero. “L’Inghilterra, egli esclama, è passata sotto il regno del terrorismo. È stato soppresso il diritto dei pubblici meetings […]. È cominciato un terrorismo uguale a quello che Balfour denunzi come esercitato in altri tempi della Land League in Irlanda. Con questa differenza in peggio: il terrorismo della Land League veniva esercitato in opposizione al governo; quello degli imperialisti si esercita col beneplacito del governo e di Balfour […]. E Balfour tiene un linguaggio che fa concludere corruptio optimi pessimi” (11).

Che dire del jngoismo? Gl’inglesi derisero sempre i francesi pel loro funesto chauvinismo; ma l’entusiasmo morboso nazionalista in Francia, nemmeno sotto il 2° impero, che potè vantare le vittorie di Crimea, Magenta e Solferino, arrivò al fanatismo che ha raggiunto in Inghilterra e in alcune sue colonie. L’odioso e il ridicolo si sono dati la mano e hanno fatto perdere ogni serietà al popolo inglese. Esso ha visto degli eroi nei suoi generali, che si sono mostrati degni di figurare accanto al Generale Boum in una operetta di Offenbach; si è esaltato sino al parossismo per vittorie che si sono tramutate in snguinose sconfitte o che sono state conseguite umoristicamente senza morti e senza feriti, mentre -di che si sono allarmati quanti non hanno perduto la ragione- molte vittorie reali dei Boeri sono riuscite poco sanguinose, perché interi reggimenti di mercenari inglesi si sono arresi ai primi colpi dando prova di qualche cosa che gli altri prosaicamente chiamano viltà; a Montreal (Canadà) la notizia che otto -dico otto- canadesi erano caduti a Koodoosberg sollevò “una tremenda ondata di entusiasmo delirante da Oceano a Oceano -scrisse l’imperialista “Times”- da far temere che l’intero paese stia incamminandosi sulla strada della follia!”.

Ora questa follia jingoista è tanto più spregevole -si adoperi la dura parola- in quanto che le reali o immaginarie vittorie degli inglesi dovrebbero fare arrossire di vergogna coloro che le avrebbero ottenute; poiché non si può che arrossire della supremazia che un popolo di 40 milioni -oltre le centinaia di milioni di sudditi delle colonie- ottiene contro una microscopica tribù di quattrocentomila uomini! Perciò, ha fatto le spese di tutti i giornali di caricatura del mondo la gioia degli inglesi, che hanno proclamato vendicata Majuba -dove 200 Boeri batterono 550 Inglesi- colla resa di Cronije che è rimasto prigioniero, coi suoi quattromila eroi, di lord Roberts, che ne comandava quarantamila! E se ne sono vergognati i pochi giornali e le poche riviste che non hanno ancora perduto la ragione -“Review of Reviews”, “Morning Leader”, “Westminster Gazette”, “Reynold’s News paper”.

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E ora mi sembra che si possa continuare a far voti per la vittoria finale dei Boeri con secura coscienza: essa sarebbe la vittoria del diritto e della libertà, della giustizia e della utilità nel mondo civile. Bisogna augurare la vittoria ai Boeri in nome di ci che tutti abbiamo ammirato ed esaltato nella storia della stessa Inghilterra, e augurarla anche oggi che sembra impossibile.

Nella sconfitta il popolo inglese potrebbe trovare la spinta a rinsavire; e un grande popolo non inoltrato ancora nella via della degenerazione è sempre in tempo per rinsavire mettendo alla gogna coloro che colla bandiera dell’Imperialismo militarista e jingoista lo hanno incamminato sulla via della perdizione.

Ma se l’augurio fervido per il popolo inglese, che viene da chi nell’Inghilterra civile e democratica rimane sempre un sincero ammiratore, dovesse andare perduto, dovremmo per questo disperare dell’avvenire?

Non vi sono missioni perpetue per alcun popolo e per alcuna razza. Tutti i popoli e tutte le razze hanno avuto la loro ora di splendore e di decadenza; e quando la missione incivilitrice di un popolo è terminata, un altro ne ha raccolto la successione.

Decaddero Atene e Roma, e il mondo continuò a progredire; si spense la luce brillante delle repubbliche medioevali italiane e fiamminghe, e l’arte e la scienza e i commerci continuarono a fiorire; impallidì il faro della grande rivoluzione francese, e non uno dei suoi raggi che avevano illuminato l’Europa andò perduto; potrà perdere la grandezza e il predominio attuale l’Inghilterra contemporanea, e l’umanità continuerà a progredire in ricchezza, in libertà, in civiltà.

Così è stato; così sarà. Perché così non fosse, si dovrebbe ammettere che l’Inghilterra e gli anglosassoni rappresentino una nazione e una razza predestinata alla superiorità, non si sa da quale Dio misterioso. E questa sarebbe una ipotesi, che fa il paio con quella del Nietzciano superuomo, e che bisogna lasciare ai pazzi e ai romanzieri decadenti e decaduti.

Dott. Napoleone Colajanni

Deputato al Parlamento.


Note prima parte

1) “Militarismo e socialismo in Inghilterra”, nella “Neue Zeit” del 3 febbraio.
2) Ai nostri lettori che l’avessero dimenticata ripetiamo la definizione del Jingoismo data da Stead prima che scoppiasse la presente guerra: “Non vi è che una sola buona definizione del Jingoismo ed è questa: imperialismo ubriaco, o se si preferisce il bisticcio, imperialismo più gin, con una dose maggiore di gin che d’impero. È un imperialismo avventato, non trattenuto da alcun scusa di responsabilità. Un Jingo è gonfiato d’insolenza e di orgoglio, e il suo sentimento per la nazione rappresenta ciò che è l’alcool per gl’individui, e generalmente esso perisce delle conseguenze dei propri eccessi. Il Jingoismo per Ionh, Morley, poi, rappresenta la cupidigia del territorio altrui, il disprezzo dei diritti altrui del benessere interno, la violenza nei rapporti internazionali: il tutto sistematicamente sviluppato e al massimo grado applicato
3) “Vita internazionale”, 5 aprile
4) “Il valore sociale dei popoli”, “Rivista popolare”, Anno VI, n. 6. “La Rivista Popolare” ha consacrato molti altri articoli ai Boeri, che non c’è bisogno di ricordare.
5) I Boeri chiamano “guerra dei milionari” quella che si combatte sui loro campi. Più severi gl’inglesi, non ubriacati dall’imperialismo, dissero tale guerra: “guerra di briganti, prodotta da una politica omicida e fangosa”. “Noi scrisse il ‘Reynold News paper’, denunziamo la violenza contro il Transwaal come uno dei più odiosi delitti commessi dal governo inglese nella lunga carriera di spogliazione contro i popoli deboli: e ogni inglese che non protesta contro questa politica da ladri e da assassini deve essere considerato come complice e responsabile di ci ciò che si opera dagli uomini di Downing Street”. (N. 2557, settembre 1899). Gl’inglesi, non accecati dal Jingoismo, giustamente considerano come fangosa questa guerra provocata e promossa dalla Chartered Company, che ha fatto cattivi affari nella Rhodesia e che spera farli migliori – e le sue azioni sono salite vertiginosamente colle vittorie di Lord Roberts! Annettendosi il Transwal. La Rhodesia fu tolta colla frode e colla violenza e [a] Lnungula re dei Matabelli; gli stessi mezzi si adoperano per annettere il Masonaland. “La Rivista Popolare” fu la prima in Italia a denunziare che il Duca di Fife, genero della Regina, e altri lord e deputati erano azionisti della Chartered Company.
6) “Il momento di osare o di rinsavire?” (“Rivista popolare”, 15 gennaio 1900)
7) Il generale Gandolfi narrò le gesta degli inglesi a nostro danno nell’opuscolo: La nostra politica africana. Timori e speranze di un ex funzionario eritreo (Imola, 1895). E Scarfoglio trattò l’argomento nell’opuscolo: Le nostre cose in Africa e in una serie di brillanti articoli nel “Mattino” (1895). Lo Scarfoglio è africanista e francofobo)

Note seconda parte
8) Roberto Mirabelli con sobrietà e precisione mise le cose a posto sull’azione eseritata dall’Inghilterra in pro dell’Italia nel 1860.
9) William Stead mette in rapporto all’episodio di Fashoda la costruzione di 178 nuove navi di guerra votata dalla Francia (“Review of Reviews”, marzo 1900). E gli armamenti della Francia provocano quelli della Germania e dell’Italia. Il conte Bulow raccomandò e giustificò l’aumento della flotta tedesa in vista della nuova politica imperialista inglese.
10) Il bilancio navale inglese pel 1900 è di sterline 27.522.600, che unite alle sterline 61.000.000 per la guerra fa arrivare alla spesa militare di circa 89.000.000 i sterline: cioè di due miliardi duecento settantacinque milioni di lire! Per istabilire la supremazia sui Boeri, osserva Stead, si faranno pagare ai contribuenti inglesi i miliardi: per i milioni di sudditi dell’India, che muoiono di fame bastano le 100.000 sterline sottoscritte a Mansion-House a iniziativa del lord Mayor!
11) “Review of Reviews” (aprile 1900). Quando la Guerra era appena allo inizio -in ottobre- lo “Spectator”, pur essendo imperialista, deplorò la cecità di coloro che nel comizio di Trafalgar Square nella violenza e nella leggerezza imitarono i francesi che nel 1870 gridavano: “À Berlin! À Berlin!”.