Intellettuale militante, socialista, libertario, cosmopolita, pacifista e volontario nella Grande Guerra, rivoluzionario nella Russia del 1905 e del ’17, antistalinista della prima ora, antifascista in Italia e in Francia, Andrea Caffi, vissuto in disparte e in povertà, è una fra le figure più originali della sinistra europea ma le storie del socialismo raramente lo citano…
Questo perché Andrea Caffi non è un pensatore e un militante particolarmente conosciuto, nonostante che, con la sua azione e i suoi scritti, abbia attraversato la storia del socialismo italiano e russo dall’inizio del secolo fino agli anni Cinquanta. Solo recentemente lo si sta riscoprendo, ma ancora gli si dedica meno attenzione di quanto meriti. Il motivo di questo oblìo è forse da attribuire al fatto che il suo pensiero risulta irriducibile a ideologie già costituite. Era certamente, e dichiaratamente, un libertario, ma non fu mai un militante anarchico; era un socialista, ma criticava la politica dei partiti socialisti e socialdemocratici; partecipò al movimento operaio russo dei primi anni del secolo, ma fu sempre un antibolscevico; per qualche tempo militò in "Giustizia e libertà”, ma non fu mai un liberalsocialista.
Andrea Caffi era costitutivamente anti-sistematico. Rifiutava ogni ordine di idee fondato su un certo numero di postulati e riducibile a un principio unico; tanto più rifiutava l’idea di trattare la società come un sistema logico o matematico o come un insieme di individui, di gruppi, di meccanismi e fatti materiali, organizzati secondo un criterio unico e dominante. Sapeva che le scienze hanno perduto la grande fede in se stesse che avevano avuto fino alla fine del secolo scorso, e non a caso scriveva: "È entrata in crisi la grande credenza che sostituì le credenze religiose: che la scienza conduce alla saggezza, alla conoscenza di sé e del mondo”. Cionondimeno, criticava anche il "fanatismo relativista”, ossia la concezione che riconduce tutto alle condizioni storiche e sociali.
Ma quello che Caffi ha pubblicato durante la sua vita, e anche quanto pubblicato postumo, nelle due differenti versioni di Critica della violenza e negli Scritti politici, lo rappresenta, per dirla con Montaigne, soltanto "obliquamente”. Di lui occorrerebbe parlare soprattutto come persona, perché la sua vera grandezza fu di essere una grande persona. Nicola Chiaromonte, che fu il più fedele e profondo dei suoi amici-discepoli, nell’introduzione alla raccolta di saggi che pubblicò Bompiani, non a caso lo definisce "l’uomo migliore, il più giusto, che io abbia conosciuto”. La sua grandezza come persona è principalmente dovuta al fatto che pensava "socraticamente”, cioè con gli altri e per gli altri. Nemico di ogni sapere accademico, il suo modo naturale di riflettere era il dialogo, lo scambio di idee faccia a faccia, contro ogni preconcetto e fuori da ogni schema, da cui risultava, per dirla ancora con Chiaromonte, "la visione del fenomeno salvo dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo”. Caffi, anche se aveva studiato col filosofo tedesco Georg Simmel e aveva scritto qualcosa insieme al filosofo italiano Antonio Banfi, come lui allievo di Simmel, era soprattutto, per formazione e studi, uno storico. Ma anche come storico la sua concezione era particolare: per lui la storia era semplicemente il ricordo del passato, un passato nel quale non si danno eventi privilegiati e del quale la facoltà mitopoietica è "l’humus primevo e ricorrente”. In altre parole l’originalità profonda del pensiero di Caffi sta nel concepire l’essenza, la verità viva, la "sostanza sacra”, dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.
Insomma, per Caffi il modo di essere costituiva l’aspetto fondamentale…
In effetti, Caffi teneva sempre presente "come” concretamente vengono vissute le relazioni umane, al di là delle categorie teoriche; questo era il suo modo di sentire la società, la natura del cambiamento sociale, la struttura e le funzioni dello Stato. Fu in virtù di questo modo di sentire e pensare che arrivò a denunciare le crepe dei sistemi sociali che rifiutano i costumi e gli usi che storicamente emergono, ritenendosi razionali secondo una razionalità astratta. È anche per questa componente "esistenziale” che dai suoi scritti emerge un esame spregiudicato, approfondito, in più di un punto geniale, delle categorie fondamentali cui ci rifacciamo per dibattere e chiarire i problemi della convivenza civile. Centrali erano per lui le contrapposizioni fra società e Stato burocratico, fra cultura e nazione, fra umanità e violenza. È sempre in conseguenza di questo "esistenzialismo” che, nonostante fosse coinvolto in tutte le passioni del secolo, aveva, come Thomas Mann, un certo sospetto nei confronti della politica. Diceva che bisognava guardarla come si guarda un cane rabbioso.
Caffi era lontano dalla politica come ideologia o militanza e non a caso, in un saggio sulla rivoluzione russa scritto nei primi anni 30, sosteneva che politica e cultura richiedono propensioni incompatibili: la politica, soprattutto quella delle teste quadre, degli apparati rivoluzionari, implica, per dirla con Schopenhauer, l’esercizio della volontà, mentre la creazione culturale, artistica e letteraria, implica quello della contemplazione. Ripeteva spesso che le creazioni dello spirito gli apparivano sempre più efficaci delle imprese politiche. E infatti Carlo Rosselli lo accusò di concepire "Giustizia e Libertà” e la sua azione come una sorta di contemplazione.
Tutto questo, tuttavia, nulla toglieva al fatto che la politica esiste e bisogna cercare di "aggredirla”. Del resto lui l’aveva aggredita sin dagli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialdemocratico di Pietroburgo (dove era nato nel 1886 da genitori italiani), poi con la partecipazione alla rivoluzione del 1905, durante la quale venne arrestato, e a quella del ’17. In seguito dovette scappare dalla Russia. Una volta tornato in Italia seguì da vicino l’ascesa del fascismo. Poiché in un lungo articolo sulla rivista Volontà aveva denunciato con nome e cognome il mandante del delitto Matteotti, cioè Mussolini, per evitare l’arresto fu costretto a scappare e riparò, come moltissimi altri antifascisti, in Francia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1955. Partecipò, anche se indirettamente, alla guerra civile spagnola e durante la seconda guerra mondiale collaborò con la resistenza francese, venendo arrestato dalla Gestapo.
Non si può quindi dire che la politica, nel suo concreto divenire quotidiano, non lo interessasse. Il fatto è che Caffi, come dicevo, distingueva, credo giustamente, la politica come ambito dell’azione dal pensiero, dalla conoscenza storica e filosofica. In sostanza, la politica non aveva per lui un suo statuto specifico, ma era parte della vita e come tale andava affrontata, in essa si agisce e ci si rivela come persone, al di là di quel che si fa o si produce nell’ambito della cultura.
In questa costitutiva "impoliticità” quanto spazio aveva il bisogno di mito, che Caffi contrappone sempre alla logica dell’utile?
Per lui il superfluo, anche nella vita pratica, veniva sempre prima del necessario, era ciò che dava valore e sapore al vivere. Per questo aborriva la logica utilitaristica. Scrisse Note sulla cultura di massa, un saggio che Eliot considerava una delle cose più acute che avesse mai letto, in cui, quale esempio del mutamento del modo di essere delle persone imposto dalla modernità, fa un’analisi della differenza tra il leggere e l’andare al cinema. Il cinema, nonostante si presentasse come fabbrica dei sogni, contribuiva a distruggere la capacità di sognare: la macchina da presa isola la
realtà e le toglie quella ambiguità, quelle nuances che, invece, nella lettura restano salve e stimolano la capacità di sognare. In sostanza, la cultura di massa, come la tecnologia e la meccanizzazione del mondo, avevano ridotto sempre di più gli orizzonti mitologici del nostro tempo. In un altro passaggio dello stesso scritto dice che una civiltà si può giudicare tanto più sviluppata, quanto più è attivo e presente l’orizzonte mitologico.
Ma quanta parte delle idee di Caffi è da attribuire alla delusione per la piega presa dalle rivoluzioni cui aveva partecipato?
Certamente gli avvenimenti, non certo pochi, cui partecipò lo segnarono moltissimo. Nei suoi scritti ritorna spesso l’amara considerazione che tutti i grandi movimenti di idee, le utopie, le rivoluzioni socialiste, nel momento in cui si realizzano, rivelano la discrepanza tra il
sogno che le animava e l’effettiva costruzione statuale o sociale che realizzano.
Non era solo la delusione storica, quanto un "dubbio sistematico” (l’espressione
è di Moravia che da giovanissimo conobbe Caffi e lo frequentò fino alla sua morte), derivatogli da una profonda conoscenza storica e dalla sua formazione filosofica influenzata da Simmel e da Nietzsche in primo luogo, a portarlo a pensare che certe caratteristiche della nostra epoca -il livellamento generale, le grandi scoperte scientifiche e l’avvento di tecnologie che impoveriscono l’orizzonte intellettuale e la capacità mitopoietica dell’uomo contemporaneo- stavano creando un mondo sempre meno controllabile.
Caffi insiste sempre sull’elemento della "socialità”. Come la intendeva?
La socialità, per lui, si basa sull’affinità spontanea, non può fondarsi né sul popolo in sé, né, tantomeno, sullo Stato; aggiungeva che dove non c’è spontaneità, c’è forza, c’è violenza.
Per Caffi la socialità è una sorta di "condivisione originaria” come quella che si può ritrovare, ad esempio, fra allievi di una stessa scuola. E infatti, per rendere l’idea di quel che intendeva, citava proprio l’esempio degli allievi del liceo russo nel quale aveva studiato: ragazzi, figli di persone diversissime, appartenenti a tutte le classi sociali, che avevano mantenuto nel tempo un certo modo di essere che li faceva sentire sodali anche al di là delle diverse scelte fatte nella vita. La socialità, il sodalizio, erano il cardine della sua concezione sociale, cardine che sosteneva tutte le sue idee sulla violenza, sulla libertà, sulla necessità di ridurre, se non eliminare, lo Stato.
(a cura di Franco Melandri, giugno 1996)